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A cura di Blog Collettivo

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La crisi nell'industria? Si supera solo puntando su nuovi modelli produttivi

Rischiamo di vivere nei prossimi i mesi, in Europa come in Italia, un grande insopportabile paradosso. La grande crisi, che è scoppiata come crisi dei mercati finanziari, per quegli stessi mercati è ormai superata: basti vedere l’andamento degli indici azionari degli ultimi mesi, le banche che hanno superato la loro crisi di sistema e di liquidità, il rinnovato e solido interesse di investitori globali verso il Vecchio Continente che negli ultimi mesi ha fatto rientrare nell'area euro, si calcola, un flusso di capitali pari a circa 150 miliardi di dollari.

Ma il paradosso di tutto ciò è che la crisi è finita per chi l’ha procurata, ovvero i mercati finanziari spregiudicati e spesso privi di regole adeguate ai nuovi tempi. In realtà, per chi più di altri l’ha subìta sulla propria pelle (le famiglie, i lavoratori, i giovani, le imprese), in Italia come in gran parte d’Europa, la crisi è ancora tutta lì, a mostrare i segni di una vera e propria devastazione sociale. Da qui la sfida vera, da far tremare i polsi, è innanzitutto recuperare dal punto di vista occupazionale e produttivo tutto ciò che abbiamo perso negli ultimi anni.

La ripresa economica, che in Europa comincia a farsi strada, è ancora debole e contraddittoria. In Italia tali segnali sono ancora più flebili, come confermano i dati più recenti in corso d'anno, anche se per comprendere davvero cosa sia accaduto vale la pena guardare soprattutto a dati consolidati.

In un quadro fortemente contrastato, al netto delle rilevazioni contingenti e altalenanti dell'intero primo semestre del 2014, il Pil procapite italiano nell’arco di tempo che va dal 2001 al 2013 è passato 24.460 euro a 22.874, registrando dunque una contrazione del 6,5%. Il dato peggiore tra i 28 paesi dell’Unione e un saldo negativo che ci vede in compagnia solo di Spagna (-0,6), il Portogallo (-2,5), Grecia (-3,6) e Cipro (-5,2), a fronte di una media Ue che registra, per il periodo in esame, un aumento medio del 10%.

Nel periodo 2001-2013 nel nostro paese si è registrata una massiccia erosione della base produttiva: la flessione della produzione industriale, in media del -5% annuo tra il 2007 e il 2013 (contrazione che non ha riscontro in nessun altro grande paese industriale), è costata al comparto manifatturiero italiano la perdita di diverse posizioni nella graduatoria mondiale. Al di là della retorica con cui da anni si grida al "declino industriale" del paese è fuor di dubbio che la lunga crisi ha indebolito fortemente la capacità produttiva italiana: nel mentre a livello globale, dal 2000 al 2013, la produzione industriale è cresciuta del 36,1 per cento, per l’Italia c’è stato addirittura un tracollo del -25,5 per cento.

Il contesto europeo ha sicuramente influito, visto che l’Italia non è l’unico paese del Vecchio Continente a trovarsi nel mezzo di una gravissima crisi industriale che ha risparmiato ben pochi paesi, tra i quali la Germania (nonostante anch'essa nel secondo trimestre di quest'anno cominci a manifestare segni di frenata della propria capacità produttiva). Insomma, nel mentre molte economie, a cominciare da quella USA, riprendono a crescere, l'Europa fa grande fatica anche a causa di politiche di bilancio eccessivamente rigide e restrittive, del credit crunch che ha tolto ossigeno ai consumi delle famiglie e alla dinamicità delle imprese, di una valuta troppo forte che ha finito per rallentare le esportazioni.

In tale contesto di diffusa sofferenza, è altrettanto indubbio, però, come abbiamo già visto, che l’Italia tra le grandi economie industriali è quella più in difficoltà a causa di patologie tutte interne ormai croniche che l'hanno profondamente indebolita e resa sempre meno competitiva: il crollo della domanda interna, l'alto costo del lavoro privo di legami con la produttività, la contrazione del credito, il calo dei redditi delle famiglie.

Eppure nella nostra economia industriale non mancano segmenti che manifestano una notevole capacità competitiva, grazie alle numerose imprese che sono riuscite ad adattarsi e ad innovare. Un processo virtuoso che ha interessato in particolare le piccole e medie imprese manifatturiere italiane, consentendo loro di conquistare spazi di mercato in settori altamente innovativi e tecnologici quali l'aerospazio, la meccatronica, le biotecnologie che si sono aggiunte ai settori tradizionali quali l'agroalimentare, la moda, la meccanica. Da tali settori, vocati fortemente all'export, viene la conferma che il successo di una rinnovata politica industriale, in Italia come in Europa, sta nella capacità che si avrà di integrare i tradizionali punti di forza con una robusta spinta all'innovazione tecnologica, oltre che nel produrre con sempre minore intensità energetica: fattori fondamentali per accrescere valore aggiunto e consolidare una specializzazione produttiva sempre più market oriented.

Va considerato, tuttavia, che la crisi ha cambiato le strutture produttive e i modelli industriali in modo così profondo, che qualsiasi politica di rilancio del manifatturiero italiano non può che partire dalla consapevolezza che la perdita di capacità produttiva non potrà mai essere compensata puntando su di beni e servizi tal quali a quelli che esistevano prima della crisi.

In sostanza nessuno spazio vi può essere per politiche industriali fondate unicamente sulla difesa o sul recupero di posizioni in settori in cui l’industria italiana ha perso ogni vantaggio competitivo. Anche per queste ragioni vi é sempre più necessità di una moderna politica industriale.

Un tema su cui negli ultimi anni, in Italia, non è certo mancato il dibattito: una sorta di collettivo interrogarsi di volta in volta sul declino industriale del paese, sul piccolo che è bello e che resiste o sui limiti di un modello industriale ormai superato.

Ciò che è mancato e tuttora manca è, invece, proprio una vera, solida, efficace, moderna politica industriale. Troppi aggettivi? Forse utili per differenziare ciò di cui l’Italia e il suo sistema industriale hanno effettivamente bisogno da ciò che finora è stato.

Una definizione utile, prima ancora che ambiziosa, di politica industriale dovrebbe fondarsi su una visione strategica finalizzata al raggiungimento di specifici obiettivi di medio - lungo termine definiti ex ante (e, quindi, soggetti a valutazioni successive).

In Italia, bisogna riconoscerlo con onestà, negli ultimi anni ci sono stati tanti singoli pezzi ma non c’è stato il quadro d’insieme di una organica e moderna politica industriale.

Fa specie ricordarlo, sono trascorsi infatti quasi dieci anni, era il 2006, ma l’ultimo tentativo di definire una politica industriale nazionale è stato il Programma “Industria 2015”, in cui le strategie per lo sviluppo e la competitività del sistema produttivo italiano del futuro venivano fondate su:

- un concetto di industria esteso alle nuove filiere produttive che potessero integrare manifattura, servizi avanzati e nuove tecnologie;

- un’analisi degli scenari economico-produttivi futuri che attendevano il nostro Paese in una prospettiva di medio-lungo periodo, appunto il 2015.

Di quella intuizione, troppo presto accantonata, sono del tutto attuali gli assi fondamentali che possono rappresentare ancora oggi l'ispirazione di una moderna politica industriale: a cominciare dall'individuare nelle reti di impresa, nella finanza innovativa e nei Progetti di Innovazione Industriale gli strumenti per promuovere una rafforzata competitività del sistema industriale italiano nell’ambito di una economia mondiale sempre più globalizzata. Una strategia fortemente basata sul cambiamento e sull’innovazione, sulla capacità di leggere l’evoluzione degli scenari competitivi e di orientarne conseguentemente le scelte di politica economica. Altrettanto fondamentale risulta, in tale impostazione, la capacità di mobilitazione unitaria e integrata intorno a tali obiettivi delle amministrazioni centrali e locali, del mondo imprenditoriale, delle università, degli enti di ricerca e del sistema finanziario.

Su tali direttrici di una rinnovata politica industriale si dovrà innestare un altro obiettivo da condividere anche in Europa: la necessità di ancorare lo sviluppo manifatturiero a specifici ambiti territoriali all’interno dei singoli paesi, in un’ottica di forte specializzazione produttiva. Una esperienza positiva che é già sfociata nella costituzione di numerosi distretti e cluster produttivi e tecnologici in molti paesi europei e che comincia a fare i primi passi, negli ultimi due-tre anni, anche nel nostro paese.

Bene ha fatto la Commissione Europea nello scorso 22 Gennaio, per quanto probabilmente in ritardo rispetto a ciò che di profondo è avvenuto negli ultimi cinque anni, nel dare prova di attenzione all’economia reale con la Comunicazione al Parlamento Europeo “Per una rinascita industriale europea”, diffuso con l’espressione sintetica di industrial compact. Un documento importante nel quale risalta l'obiettivo di rivitalizzare l'economia dell'UE puntando ad innalzare il contributo dell'industria al PIL comunitario portandolo al 20% entro il 2020. Questo documento, in uno con la consapevolezza sempre più diffusa che il rilancio dell'economia reale é un problema per l'Europa intera e non solo per alcuni paesi, ha dato avvio ad un confronto sempre più ampio sulla necessità di un nuovo “rinascimento” industriale.

Una prospettiva importante ed ambiziosa tanto negli obiettivi quanto nel significato: rimettere al centro delle politiche comunitarie l’economia reale. Una prospettiva che dovrà essere perseguita in un quadro di risorse di finanza pubblica scarse (molto scarse nel caso di un paese come l’Italia): con la consapevolezza, quindi, che una nuova politica industriale europea dovrà essere fortemente realistica, con interventi programmati dovranno tener conto di tali vincoli stringenti e non prevedere spese impossibili da sostenere.

Tocca all'Italia fare dell'industrial compact europeo il tema centrale della propria agenda di guida dell'Unione in questo semestre, favorendone una rapida e concreta attuazione. Partendo, innanzitutto, dalla piena comprensione e identificazione di alcuni fattori critici che hanno attraversato gran parte dell'economia europea: la debolezza della domanda interna (frutto anche delle politiche restrittive di bilancio); la presenza di un business environment sfavorevole; livelli di investimenti e di innovazione inferiori rispetto a quanto si realizza in altri continenti.

Per passare, poi, alla piena condivisione degli obiettivi e delle azioni definiti come essenziali: la riduzione dei costi dell'energia e delle materie prime; le potenzialità di un’amministrazione “amichevole”; ulteriori progressi nel processo di unificazione del mercato europeo; liberalizzazione dei mercati; l’internazionalizzazione delle imprese; l’impegno nella formazione e nell’arricchimento del capitale umano; l’accesso al credito; la corretta utilizzazione dei fondi europei. Obiettivi ed azioni ancora più urgenti per il nostro paese alle prese con il processo di indebolimento della propria struttura produttiva che sopra abbiamo richiamato.

Ed, infine, declinare la sfida dell'innovazione e del rilancio degli investimenti individuando aree di intervento prioritarie, da sviluppare sia su scala nazionale che europea e su cui far convergere circa 180 miliardi di euro disponibili fino al 2020, provenienti dal programma Horizon 2020 e dai Fondi Strutturali. Dalla stessa Commissione sono venute indicazioni nette sulle priorità da individuare (*): processi avanzati di fabbricazione (advanced manufacturing), con particolare riguardo all’integrazione della tecnologia digitale nel processo manifatturiero; tecnologie abilitanti fondamentali (KET), nei campi ad esempio delle batterie, dei materiali intelligenti e dei bioprocessi industriali; bioprodotti, per garantire l’accesso a materie prime ecosostenibili e a prezzi di mercato; mezzi di trasporto su gomma e via mare ecologici, promuovendo così una mobilità sostenibile; edilizia sostenibile, anche in relazione al riciclaggio e alla gestione dei residui delle costruzioni; reti intelligenti e infrastrutture digitali.

Ambiti industriali ad altissima densità di domanda di innovazione e di ricerca, nonché di mobilitazione di capitale umano qualificato e con una rilevante interconnessione con la necessità di costruire modelli non solo industriali ma di infrastrutturazione sociale moderni e sempre più avanzati: settori su cui l'Italia può svolgere una funzione di leadership anche nell'ambito europeo.

Negli ultimi anni l’Unione europea e gran parte dei paesi membri, compreso il nostro, hanno affrontato i mercati in subbuglio concentrati soprattutto sulla stabilità finanziaria e sulla riduzione dei deficit e del debito. Tali pur decisivi obiettivi, in parte raggiunti o in via di raggiungimento, non hanno contemperato la necessità di gettare le basi di una solida ripresa economia e di un rilancio industriale duraturo. Anzi, abbiamo conosciuto le conseguenze sociali gravissime della recessione. Con la riduzione delle tensioni finanziarie e il ritorno della fiducia, è l'ora non più rinviabile che l'Europa, specie in questo semestre di guida italiana, torni a prestare totale attenzione all’economia reale e alla sua base industriale, da modernizzare e da proiettare nel futuro.

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