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A cura di Blog Collettivo

Ospitiamo in questo Blog opinioni di alcuni cittadini Brindisini

Opinioni

Poesia brindisina, tra classici e mode del momento

Mai come in questo periodo c’è un proliferare di opere dialettali che darebbero la parvenza di amore infinito per la propria terra, le tradizioni, i costumi, la lingua. Tale fenomeno ha degli aspetti sconcertanti, tanto che il povero sociologo dà di tali manifestazioni spiegazioni più o meno convincenti, tra le quali la più accettabile è quella che vede la insoddisfazione determinata dal calo e disinteresse verso ogni valore; a ciò si sopperisce ancorandosi ai valori antichi che si esercitavano in uno spazio culturale certamente più angusto, ma che avevano i requisiti della solidarietà, del rispetto, di una dimensione più umana, più vera e vivibile, tanto da costellare, il più delle volte, una vita grama, ma ricca di piccole soddisfazioni che, all’epoca, apparivano immense.

Mai come in questo periodo c’è un proliferare di opere dialettali che darebbero la parvenza di amore infinito per la propria terra, le tradizioni, i costumi, la lingua. Tale fenomeno ha degli aspetti sconcertanti, tanto che il povero sociologo dà di tali manifestazioni spiegazioni più o meno convincenti, tra le quali la più accettabile è quella che vede la insoddisfazione determinata dal calo e disinteresse verso ogni valore; a ciò si sopperisce ancorandosi ai valori antichi che si esercitavano in uno spazio culturale certamente più angusto, ma che avevano i requisiti della solidarietà, del rispetto, di una dimensione più umana, più vera e vivibile, tanto da costellare, il più delle volte, una vita grama, ma ricca di piccole soddisfazioni che, all’epoca, apparivano immense.

Quella odierna può apparire una reazione da rigetto, intesa come scollamento di una realtà attuale che si rifiuta. La spiegazione, però, potrebbe essere anche più semplice e, per certi versi, più deludente: quando ci si accorge che gradatamente, ma inesorabilmente si va disperdendo un patrimonio ci si attacca a questo con ogni mezzo pur di farlo sopravvivere, conservarlo e, se possibile, anche tramandandolo. L’incipiente globalizzazione ci sta facendo perdere, giorno dopo giorno, l’esatta dimensione della nostra vita, ormai sopraffatta da un generalizzato appiattimento, da ciò ne deriva che soprattutto stiamo disperdendo il nostro idioma, il dialetto, che prima è un modo di pensare e che successivamente diventa linguaggio.

E’ possibile che nasca proprio da qui un istintivo bisogno di aggrapparsi all’antico, nella (vana) speranza di una sopravvivenza difficile. A questa necessità di ritorno non si è sottratta la poesia in vernacolo che ha visto fiorire innumerevoli e spesso improvvisati cultori, purtroppo non sempre qualificati. E qui, è meglio parlare di “ricordi popolari espressi in dialetto”, più che di poesia dialettale, poiché il dialetto è lingua viva del popolo capace di esprimere ogni sorta di sentimenti, pensieri e sensazioni che appartengono ad un altro mondo e ad un’altra cultura.

Non per nulla, la prima, vera espressione della poesia bisogna rintracciarla nei canti popolari che accompagnavano, dando un tempo ritmico, il duro lavoro della campagna, ma anche era il mezzo più immediato di comunicazione per quella parte (abbondante) di popolo che pensava che le abilità del leggere e dello scrivere fossero di esclusiva pertinenza dei padroni, dei signori e dei preti, pertanto affidava alla immediata improvvisazione orale ogni sorta di emozione che dovesse essere esternata, facendo così, in modo inconsapevole, opera di cultura.

Chi, encomiabilmente, si è adoperato di raccogliere, appena agli inizi del 1900, i canti popolari che erano d’uso nella nostra Terra, è stato il ricercatore e studioso brindisino Edoardo Pedio. Questi è stato capace, avendone pieno merito, di mettere per iscritto ogni sottigliezza del folklore locale, in un periodo in cui divisioni, gelosie e rivalità caratterizzavano in modo netto la classe dei contadini dalla classe dei marinai e dei pescatori. I primi legati in modo subordinato ai ricchi latifondisti; i secondi più liberi, più indipendenti e quindi coscienti della loro autonomia. Era impossibile che una ragazza della “marina” potesse sposare un contadino, così com’era altrettanto difficile che un marinaio potesse sposare una contadina. Ma, certo, le cose così non potevano continuare, ed era indubitabile che prima o poi la pax sarebbe dovuta scoppiare, cosa che avvenne; allora, godendosi il fresco del mare, le signorine delle Sciabiche guardando il loro innamorato, magari contadino, così cantavano:

“Lu beddu mia,

quando vai alla chiazza,

si pavoneggia com’a’nnu pavoni;

passa ti sobbra all’ovi

e no li cazza,

ca lu manteni pesuli

l’amori.”

Per parlare di poesia, bisogna risalire ad Agostino Chimienti, certamente il primo e, meritatamente, il più illustre tra i poeti dialettali. Questo poeta era da tutti conosciuto, popolarmente, come “Papa Ustinu”; è evidente che ci troviamo al cospetto di un sacerdote. Questo prete nato a Brindisi il 28 settembre 1832, dove morì, contando 70 anni, il 21 febbraio 1902, ha dato voce, attraverso lo strumento linguistico del dialetto, ai sentimenti del popolo brindisino, raccogliendo tutte le connotazioni locali: dalla politica (visse in piena epoca risorgimentale), alla religione; dall’amicizia al contrasto; dalla pace alla guerra; dalla gastronomia all’amore per gli animali; dalla denuncia all’elogio.

Aveva un metodo, don Agostino Chimienti, che era quello dell’atteggiamento bonario, mai aggressivo, pronto a risolvere ogni e qualsiasi problema. Non venendo mai meno al suo personaggio, don Agostino ha tracciato con la sua poesia un quadro speculare, ben definito, della realtà storica brindisina. Possiamo affermare che egli sia stato un talento poetico capace di fare poesia secondo i canoni del lessico, della fonetica, della morfologia. I lavori poetici del Chimienti lasciavano il segno; difficilmente i brindisini che si sono accostati alla lettura delle sue poesie hanno potuto dimenticare i suoi versi pieni di ammonimenti, intensità, colore e straordinaria dignità. Nella sua evoluzione di poeta, mai dimenticò di essere un sacerdote e, in quanto tale, compose quella che può essere considerata una poesia immortale, dal valore religioso, cromatico, visivo, umano che ha dell’esclusivo… un capolavoro vernacolo:

LA NASCITA DI LA MADONNA

Quando nascisti, santa Virginedda,

Li steddi di lu Cielu si prisciàra,

pircè ti canuscèra ch’eri quedda

ci li Papassi antichi suspiràra.

L’Angili a ci cchiù scia di stedda a stedda

Facendo festa a sta piccenna cara,

Gridandu a voci ierta, uh, quant’è bedda !

E tutti pi lli gridi rraucàra.

Lu diavvulu sintendu la rrivota

ci nc’era a Mparadisu pi stu fattu,

s’armau di forca, e mpinnacchiau la cota;

E quando cu ssi vatta azàu lu razzu,

nd’ebbi na caci, propria ntra llu culu,

E ruzzulandu dissi: oh cc…! oh cc…!

Don Luigi De Marco (1877 – 1949), anch’egli sacerdote, bibliotecario della Biblioteca Arcivescovile “Annibale De Leo”, nonché cappellano delle carceri, conosciuto come “Lu Sciabbicotu”, compose le sue poesie in occasioni di feste e riunioni con amici. Non mancò tuttavia di essere un arguto osservatore della vita cittadina che manifestò in rima in modo semplice e onesto; fu capace anche di delineare figure di personaggi tipicamente locali che non mancavano di far breccia nell’immaginario comune. Animò, in qualità di regista, con molti giovani, il circolo “Luigini”, con sede in locali dell’arcivescovado, appena nei pressi della Cattedrale. Nutrì preoccupazioni per la città che presentò in forma di bozzetti, in un periodo storico, in cui sembrava lecito potersi lamentare di tutto e di tutti:

LI FURASTIERI A BRINDISI

Ed è pussibbili – ca a sta citati

ndimita còtiri – certi minchiati?

No dicu chiacchiri – so cosi veri

ca ndi mpapocchiunu – li furastieri.

E mali ticuni – ti tutti quanti

tutti ccimentunu – puru li Santi.

Ncerti ca volunu – a tutti l’ori

cu sontu Sindici – o assissori.

Nci sontu poppiti – Santivitisi

e di Monopuli – Francaviddisi.

Qua’nceti Oria – nci sta Fasanu

Stuni, Caddipuli – e Tuturanu.

Ansomma a Brindisi – li furastieri

nci sontu a tummini – cu li stranieri.

Però sapitulu – parlamu chiari

no tutti caspita – so pari pari.

Lu municipiu – la riliggioni

a burla mentunu – senza raggioni.

Ma quisti frusckuli – so scrianzati

a tutti trattunu – ti scustumati.

Sinducu descetiti – parla ‘nna fiata

falli, pi disina – ‘nna cazziata.

Sinducu pensici – ci nò sta genti

ruvina Brindisi – e seriamenti.

Altra mente, altra levatura quella del “maestro” Giovanni Guarino (1889 – 1976), figura popolarissima nella città di Brindisi che fu capace di animare culturalmente a partire dal 1927. Poco prima, per varie e personali vicissitudini, aveva deciso di terminare la sua esperienza teatrale, compagno di esibizioni di Domenico Tumiati, attore di buon nome, a suo agio sia nel repertorio classico (Eschilo, Shakespeare, Alfieri, Rostand), quanto in quello moderno (Maeterlinck, Molnar, Claudel). Giovanni Guarino affiancò brillantemente il bravo Tumiati in un repertorio non semplice da rappresentare. Uomo eclettico, si cimentò, componendo poesie in lingua e vernacolo, opere teatrali e canti popolari, tra questi, il canto “Lu Cuncirtinu”, meglio conosciuto come: “La mamma è priparata la pudica” è diventato l’inno di Brindisi, rendendo immortale il “maestro” Giovanni Guarino. Era capace di mettere in evidenza l’efficacia espressiva e la fluidità del verso, obbedendo anche a norme metriche, tuttavia le sue poesie vanno ricordate perché sono un’antologia storica della città di Brindisi, in ogni sua connotazione:

LU MUNUMENTU ALLU MARINARU

Tuttu ti carpuru,

pi quantu è iertu,

s’aza cu domina

sobbra a lu Puertu.

Annanzi a Brindisi

comu na torri,

pi milli sieculi

sta cu discorri:

di tanta storia

di quistu mari,

di tanta cloria

di marinari,

di quiddi giuvini

ca pi l’onori

la uerra fècira

cu assà valori.

Tuttu ti carpuru

è stu timoni:

la forza e l’anima

di la Nazioni.

Tuttu ti carpuru,

fermu a li vienti,

sta comu a n’aquila

drittu a l’Orienti.

Alfredo Galasso (1881 – 1975) è stato un poeta che ha saputo dare colore e vivacità alle immagini che proponeva ai concittadini brindisini; istintivo e intuitivo ha pubblicato per i tipi di Schena (Fasano) tre volumi (Acini ti pepi – La Pumeta – La Mundana Cummedia) che in un periodo in cui in città c’era “fame” di dialetto fecero registrare un notevole consenso. Nella sua vasta produzione, alcune poesie si mettono in evidenza per la originalità che propongono. Talvolta fu autobiografico, come quando volendo commemorare i 456 caduti in mare della “Benedetto Brin”, attinse a un indimenticabile ricordo personale:

LA TOMBA TI LU NANNI

Nu giurnu, a manu, a manu cu lu tata,

era vagnonmi tandu, ti nov’anni,

scemmu a lu campusantu, dò pricata,

la bon’anima stava ti lu nanni.

La tomba cu la scritta cancillata,

ch’erunu già passati quarant’anni,

sulu putia lèggiri la data

e lu nomi ti bon’anima: Giuvanni.

Quando rrivvammu dà, totta vilata,

nci stava na signura ca chiangia;

tissi lu tata: nunna t’à sbagliata,

pricatu nci stà qua lu tata mia.

Tata mia, no stà pricatu nterra,

rispundiu, no si po’ cchiù truvari;

è unu ti li tanta ca pi la guerra,

teni la tomba sua a fundu a mari.

Ci à vinutu pi chiangiri lu tata,

fammi stà qua cu chiangu nsiem’à ttei,

no ti curà ci m’aggiu nginucchiata,

nu muertu lu puè chiangiri dò vuei.

Raffaele Cucci (1938 – 1999) avrebbe scritto ancora tanto se la morte, a volte irrispettosa, non lo avesse ghermito nel pieno delle sue attività e facoltà che egli impiegava a favore della storia di Brindisi e del dialetto. Lasciò parenti e amici sgomenti e sconsolati, dopo appena un mese dalla pubblicazione del suo valido, attento, corretto e dotto “Vocabolario brindisino”, credibile capostipite di una serie che ormai si prolunga e che non sappiamo… se finirà e quando finirà! Padrone della lingua, commediografo, era capace di teatralizzare eventi e personaggi popolari ai quali non mancava di dare sprazzi di ironia e di comicità; talvolta le sue poesie, sempre corrette, quasi ricercate lessicalmente, nascondevano una tristezza che col senno di poi possiamo chiamare presagio. Studioso e ricercatore, Raffaele Cucci ha evidenziato nelle sue poesie momenti di vita spicciola, paesana e popolare che inevitabilmente c’inducono a pensare e riflettere:

BINIDIZIUNI A NANNUMA

Iu mi ricordu ca nannuma ticia.

Ci mi vuè sienti a me, piccunnu mia,

a li cristiani retta no’ l’à dari,

fatti li fatti tua, no’ sciuticari.

Ci sienti ch’eti biancu e anveci è neru,

tu lassili parlà, tu dì ch’è veru;

ti lu sta dici nannuta ti quai.

Ci faci tu cussì, no’ passi uai.

Ti lu sta dici nannuta ca pierni

nd’è ‘vutu tanta, e di quiddi fiermi,

ma iu pi’ quistu lu sta dicu a tei,

propria tu cu no’ ccappi com’a mei!

Alla scola, all’amori, alla fatia

no’ a uardar’a nfacci ci sia sia,

ci an capu puerti ca vuè rrivi a ddai,

retta no’ dà a niciunu, ma’ e poi mai.

Ci si cuntientu no’ lu scì ticendu,

ci si scuntientu no’ lu scì cuntandu;

chiuti la vocca, ttappiti li recchi,

chiuti li uecchi, stringi li canecchi.

Tutti sti cosi nannuma ticiu

prima cu mori, cu và mpiettu a Diu,

e toppu ca stu uai aggiu ccappatu

totta na vota mi l’aggiu rricurdatu!

Bbinidiziuni a tei, a ddo sta’ stai!

Sti cosi moi, no mi li scordu mai!

E se don Agostino Chimienti è stato il “vate” del passato, l’avvocato Ennio Masiello è quello del presente. Dialettologo, glottologo, inveterato appassionato del nostro idioma, Ennio Masiello, archeologo del linguaggio, scava e ricerca nell’antico parlare, consapevole che il dialetto sta subendo una progressiva estinzione a livello linguistico e grammaticale. Le poesie di Masiello portano nel loro dipanarsi e nel loro percorso storico il Dna dell’autore: le varianti che caratterizzavano i rioni più rappresentativi di Brindisi come le Sciabiche e i suoi abitanti che parlavano un dialetto spagnoleggiante; come San Pietro degli Schiavoni e dei suoi “sckaunari”, dove si parlava un dialetto slavo; come “quiddi di nzusu, la parte alta della città, dove l’emergente borghesia brindisina “sporcheggiava”, ovvero parlava un italiano bastardo o, anche, un dialetto italianizzato.

Con tali prerogative, le poesie di Ennio Masiello non trascurano etimologie latine, arabe, spagnole, slave, sassoni, greche, francesi, inglesi e veneziane e… credetemi, quanto affermato non è un’esagerazione! Godibili, per le vaste conoscenze dell’autore, dai componimenti di Masiello, per il lessico da lui usato, si può evincere una lunga storia d’invasioni. Per la fertile vena creativa, da tutti riconosciuta, le poesie di Masiello possono leggersi ininterrottamente, senza avere la sensazione di essere stanchi, perché alla fine danno un senso di soddisfazione e di appagamento non sempre riscontrabili in altri Autori.

CATI PIRU CA TI MANGIU

Sarà lu faugnu ca ‘nfoca li strati,

lu friddu ti ‘nviernu, lu soli ti stati,

sarà na miseria ca no si capesci,

sarà la malaria … Ma comu mi ‘ncresci!

Mi ‘ncresi cu ‘mbevu, mi ‘ncresci cu mangiu,

cu dormu, cu m’azu, cu cangiu e cu scangiu,

cu ritu, cu chiangu, cu mi ndi ‘nammoru;

mi ‘ncresi cu campu e mi ‘ncresi cu moru!

Può darsi ca è viziu o ca è malatia,

ma quantu mi puzza a me la fatìa.

Ca po’, ci nci pienzi, quant’anni ha’ campari?

Lu tiempu ca passa lu pirdi a fatiari?

Nci sta ci si ‘rraggia, nci sta ci si stizza,

ma a me no mi ‘ncodda, a me no mi ‘nghizza.

Ndi vali la pena ca unu si ‘mbuca.

Ci l’acqua mi vagna, lu soli mi ‘ssuca.

No mi ‘llicrinescu, no fazzu vilenu;

ci si po’ scanzari, facimindi a menu,

ca tanta ti ‘mbili, ti lemba o ti brocca

ogni acqua ca corri a mari li tocca!

Ci ‘nquarche foresto si mena a fatiari,

ma ce vi ndi fotti? Lassatulu fari!

No servi la ugghina, no occorri la mazza,

ma basta lu tiempu: pur’iddu si cazza!

Mai sia cu la pressa! Vagnu’, chianu chianu!

Ma ce vi pinzati ca stamu a Milanu?

Ma ce “evoluzioni”! Ma quali “progressu”!

A Brindisi, tanta, campamu lo stessu.

Sarà lu faugnu? Sarà l’aria toci?

Stu cielu, stu mari, stu soli ca coci?

Sarà la miseria? Sarà la malaria?

Sarà ca nci sta quarche cosa ‘ntra l’aria?

Certu è ca:

li mazzi, li cruessi, li tritti e li stuerti,

li bueni, li fessi, li vivi e li muerti,

li beddi, li brutti, li cani e li jatti,

a Brindisi tutti cussì simu fatti!

S^CUPPITTONI (*)

Quest’annata, nell’agro brindisino,

è un’annata di crisi eccezionale

ché, mentre l’uva se n’è andata a male,

c’è ancora un sovraccarico di vino.

Sono costretto a coglier l’occasione

e faccio un madrigale a S^cuppittone.

Amico, con la tua capacità

in barba alla politica nostrana

risolveresti in qualche settimana

tutta codesta crisi che ci sta,

ca tu ti futti, sulu a na ‘mbriacata,

e Roma e Stroma e la Basilicata.

Eppur sei senza fisime, modesto,

non vai cercando aleatico o moscato,

lacrima christi, malvasia o filtrato,

ma ‘mbivi vinu, fezza e tutto il resto.

Ci lu mari era mustu, ogni matina

Ti sce’ piazzavi abbasciu alla Marina.

Tu vivi del lavoro delle braccia,

di cannalunga sei gran professore

ed è questo il tuo stile di pittore:

dipingi tutto di color … vinaccia.

E questa legge segui inveterata:

na menza quarta pi ogni ‘ncacinata.

Diogene abitava in una botte,

ben diversa è però la tua opinione:

Non S^cuppitone va dentro la botte,

ma la botte va dentro a S^cuppittone.

Se manca di capienza il tuo budello

Accorrerà in aiuto … tuo fratello.

Intenditore esperto e intransigente

Tu sai i migliori ambienti cittadini:

Meca, Settipinzieri e, niente niente,

Iadduzzu, Trentacincu e Lazzarini.

E passi ti la chiazza ogni matina

cu ‘ccatti l’acciu pi la sparacina.

In tutto il mondo è conosciuto il vino

fatto con l’uva che teniamo qua;

faro di luce, gloria e civiltà

tu sei il simbolo d’ogni brindisino.

Appassionato d’ogni gradazione,

mio carissimo amico S^cuppittone.

(*) S^cuppittone, era un imbianchino conosciuto in città più per le sue colossali e giornaliere ubriacature che non per le sue qualità artigiane. Capace di dipingere alla perfezione il testone del Duce completo di elmetto, impazzò per Brindisi dalla fine degli anni Quaranta fino a tutti gli anni Cinquanta. Quando era sobrio non mancava di una certa, popolare saggezza. Ennio Masiello, nel magistrale madrigale a lui dedicato, facendoci sorridere, ne delinea con puntigliosa e arguta precisione le capacità di indiscusso bevitore.

Francesco Libardo (1943) poeta contemporaneo, pur privo di studi specifici, è tuttavia autore sensibile che non lesina amore per la sua Città e per il suo rione di nascita: “Le Sciabiche”. Con buona volontà e con l’ausilio di buoni maestri è tra coloro in grado di applicare, con perfezione, la metrica ai suoi lavori poetici (e non è poco). Libardo, nelle sue poesie, è capace di sciorinare un linguaggio ed un vocabolario marinaresco che lo contrassegnano di diritto quale personaggio e poeta che indulge in un recupero virtuoso della vita di chi, con il mare, ha un feeling imprescindibile. Notevole, per la indicazione dei nomi e le qualità di pesci che indica, è la sua fantasmagorica, colorata e “profumata” poesia:

LU CUNCIERTU A MARI

Quando mi trovu a mienz’a mari

sentu sueni e canti ca vennu ti lu fundali.

Na musica senza musicanti

la senti sulu

ci eti ti lu mari amanti!

Nc’eti nu stuezzu ti mari

vicinu a stu paisi

addo’ li pisci razzulesciunu

cuntienti e filici.

Nu cunciertu

t’aracosti, carbi e cicali

faci li lindineddi

vigghisciari.

Capuni e capuncieddi

vannu a tiempu

cu cintruni e pinneddi.

Na rascia t’acqua ti camascia

cu nu iattu farru ca s’è purtatu

li iattuddi ti lu scavaddatu.

Nu dottu sta ‘nzegna l’allievi a cantari;

na cetra li ccumpagna,

lu sguettu li sta senti

e sta ‘mpapagna.

Nu vai e vieni ti cauri

pilusi, vulantini e cacazzari

Sta faci tutti stunari.

La piscatriciu scucca;

e li pigghia cu tanta ti vocca.

A tutti, nu squartu

li faci ti uardianu.

Nu pesci cani piccinnu

li tai na manu

e li sintinelli ti luntanu

li fannu ti rufianu.

Ogne sera …

steddi, mandulini,

pisci t’argientu e lucirneddi

fannu tutti li pisci nnammurari;

e li pupiddi si fannu vasari ti li masculari.

Elio Di Ciommo è quello che si dice a Brindisi “omu ti penna”, nel senso che annovera pregressi studi. Appassionato del dialetto brindisino, è forse il più prolifico tra tutti i poeti, avendo dato alle stampe e pubblicato libri, quali: “Rizzetti brindisini”; “Varrattuli sittimbrini”; “Palori a vientu”; “La taiedda (patani e cozzi); “Fiuri ti cucumidduni” (e forse ancor altri, qui non menzionati). A Di Ciommo bisogna riconoscere il merito di aver reso più popolare la già popolare cucina brindisina, presentandola in “gustosi” versi dialettali. Ma sarebbe riduttivo segnalarlo solo quale divulgatore in versi dell’arte culinaria, poiché egli è stato capace di presentare quadretti di vita, di folklore e di disusate e rimpiante costumanze antiche che fa rivivere attraverso i suoi versi.

LI PAMPASCIUNI

Rrustuti o lièssi, ci no’ vué ddisciuni,

cu uegghiu e sali pi bonappititu

falli a ‘nzalata quattru pampasciuni

e cu la calatola ti l’acitu.

CARME’

Carme’, t’aggiu sunnatu questa notti;

ti vitìa ssittata nanti casa

a uàrdia ti l’ucata ch’ieri spasa

cipercisà quarcunu si la fotti:

to’ pari ti mutanti e ‘na camisa,

nu sciupparieddu nuevu e ddo’ cazuni

nu sittanieddu senza li buttuni,

‘na cuperta t’inviernu ‘ppena smisa,

tutti ppinduti comu a ‘na parata,

‘na canna ppuntiddata allu pareti

to’ cintruni all’angulu ti strata,

alla corda ti sténdiri ca nceti.

Attienta ci quarcosa si va mbuca

t’azi ogni tantu pi vidé ci ssuca.

Pino Indini, nonostante la notorietà collezionata dal suo personaggio “Coco Lafungia” rimane un uomo schivo e riservato. Troppo breve la sua vita che, se duratura, avrebbe potuto donare a Brindisi e ai brindisini tutta quanta la sua verve ancora inespressa … indubbiamente capace di riempire pagine e pagine di prosa, di poesie in lingua e dialettali, di commedie, di farse, di sketch e di quanto ancora la sua fertile penna avrebbe potuto offrirci, sorprendendo sempre il lettore per la sua genialità creativa. Ricco di un buon retroterra culturale, Pino Indini incarnava il prototipo del “brindisino”: sapiente e burlone, triste e scanzonato, mordace e indulgente, pungente e adulatore, riservato e chiacchierone, mentitore e veritiero.

Tutte queste “qualità”, Pino era capace di proporle anche nelle sue poesie in vernacolo, spesso macchiettistiche, che tuttavia non lasciavano indifferenti quanti a queste si accostavano:

LU DUELLU

L’atra sera Niculicchiu

Si ‘ccuntrau cu Cusimicchiu;

Comu foi, comu no’ foi,

‘lliticara tutti doi.

Cussì forti ‘lliticara

Ch’a duellu si sfitara.

Cce duellu!... Gesù mia!

Si ‘ndi scera all’ustirìa:

a cci cchiù sapìa mangiari

la ragioni s’era ddari!

Si ‘zziccara la furcina…

Uh, cce straggi, cce ruvina!

E li piatti ti spachetti

E li coppi ti purpetti,

Pesci frittu, ‘gnummarieddi

ti sparera beddi beddi.

Tutti doi si ‘mmurtalara,

bueni bueni si ‘ccunzara.

Ma nisciunu ebbi ragioni:

suspindera la questioni.

E cussini po’ ‘ccunzati

rumanera cchiù ‘ncagnati.

‘mberu casa quedda sera

‘mbirlisciandu si ‘ndi scera.

Si curcara, ma riggiettu

no’ pigghiara ‘ntra lu liettu.

Cce dulori… A picca a picca

già na colica li ‘zzicca.

Cce aggia ‘ddiri? Puvirieddi,

‘nci lassarunu la peddi.

Franco Distante di Paola, contemporaneo, impegnato da vari anni a proporre il folklore cittadino, è autore della commedia in due atti: “L’8 aprile 1946 a ccasa ti Filici”, un lavoro satirico-politico-sarcastico che affonda le radici in una indimenticabile pagina di storia brindisina. Come poeta dialettale, Franco Distante di Paola, è il più recente degli autori; nel novembre 2009 ha difatti pubblicato “Pinzièri fàtti a rrima”. Pescando nell’attualità, non reprobo per la nostalgia e per la vita del passato, ma attento osservatore del presente, denuncia e condanna, senza mezzi termini, situazioni di cui, giornalmente, la cronaca trabocca:

LU STUPRU

Facci ca uardi a lampi stralunata,

razzi ca ti bbloccunu la rispirazzioni,

ti spettunu e tti rricalunu ‘s^ta carugnata,

‘ntra nnu parcu, na s^trata, o nnu purtoni

Mani clandistini ti tutti li bbandieri

Mani paisani, oppure ti la s^tessa razza,

mani ca nò ccanoscunu arti e mmistieri,

ti fannu trimulari comu nna fugghiazza.

Nò si ndi fottunu, ci nò ssi mpinnata,

so uas^tasi senza nisciuna capezza,

ci si spusata, menu abbili o s^taggiunata,

pi lloru si ssulamenti nna bbambula ti pezza.

Bbusunu ti tei, s^ti piezzi ti cunigghi,

cù nna mbucaria ca l’anima ti tocca,

e mmentri nò ppuè mmoviri mancu l’igghi,

lu feli comu Gesù ti sienti am bocca.

E nnui? Poviri criaturi alla tispirazzioni

ti paroli ti sapimu fari lu ricamu,

cù lla sulitarietà, mai cù llu bas^toni,

ti tifindimu senza casticari lu nfamu.

Pi qquis^tu mi mozzica la cuscienza,

e mmi tici, ca mi nd’aggi’a vvirgugnari.

Statti cittu, si! Ca pigghi sunigghianza

a s^t’animali, ca nò ssi po’ cchiù ppirdunari!

Gino Carrozzo ha avuto il torto di lasciarci troppo presto. Quante poesie avrebbe scritto ancora … era capace di mettere in versi proprio di tutto: Brindisi, il mare, il Casale, gli amici, i viaggi, il Natale, le passeggiate, la cucina, le feste, gli inviti, i mestieri, i Santi … …Aveva una verve Gino per davvero inesauribile, un facilità di verseggiare unica, era capace di comporre una poesia li per lì, ben azzeccata, veritiera e, lasciandoti di stucco, ne ricavavi una sensazione di coralità assicurata da “umili cantori” che animavano le sue composizioni a cui egli, poeta, prestava la sua voce, quasi una rapsodia dialettale, continuo inno a Brindisi e a ogni suo personaggio.

Non finiva mai di stupirmi, quando, a prima mattina, poco prima che aprissi la Biblioteca De Leo, mi attendeva dinanzi all’ingresso, poi tirava dalla tasca un mezzo foglietto e mi deliziava con i suoi sonetti. Era bravo Gino, ma guai, veramente guai, se qualcuno gli avesse detto: << Gi’, rallenta con la tua produzione poetica!>> forse ne aveva ben donde di rabbuiarsi; per lui, limitarsi nelle composizioni, era come voler tarpare le ali a un gabbiano … e ciò non è consentito. Era solare Gino, amico e rispettoso, sincero e allegrone, entusiasta e intelligente; amava Brindisi e i brindisini, ma lui aveva un pregio in più: non conosceva sudditanze, né invidia, né menzogna… ..

SUENNU

… ‘Na sciurnata ti ‘stati: cielu azzurru,

soli ca ‘mpiccia, placidu lu mari…

‘na vela bianca, Santa Pulinari,

‘na carizza ti vientu, ‘nu sussurru.

E sciuechi, e tuffi, e cunti cu ll’amici,

partiti a tamburieddu, o stindicchiati

sobbr’a lla rena càuta; uardati,

curtiggiamienti cchiù o meno filici.

Sbarcando, a llu turnari, ‘ccaluratu,

trovu “Giardinu” abbasciu a lla marina,

cu llu triciclu chinu ti gilatu.

‘Nchianu lu Corzu, a ll’ombra, ‘ddifriscatu,

megnu ‘nu uecchi intr’a’nna vitrina…

tott’a ‘nna vota… m’aggiu ‘ddiscitatu!

‘NC’ERA ‘NA VOTA… LU CASALI

‘Na vota, lu Casali era cchiù bellu,

ti l’Ariuportu a lli Piscaturi:

qualche casodda, villi ti signuri

cu lli lanci ti fierru a llu cancellu.

‘Mmienz’a lli uerti, a ll’arvuli e a lli fiuri,

sce facivi la spesa a llu “Paesellu”;

rumanella e cicoria: a ‘ddo’ Marcellu;

Nena, tinia li mùgnuli cchiù gnuri.

‘Ntra lla villa ti Mianu: ce Agrumetu!

‘Ddo’ Ardu: ce crisombuli e muluni!

Ci vulivi li giosi, scivi dretu

a lla villa ti Bbonu… e ‘ddi tazzuni

ti latti cu la shcuma ti’ ddo’ Ambletu!...

C’era bellu… quand’erumu vagnuni!

PRIGHIERA A ’LLA MATONNA LA NOTTI TI NATALI

Madonna mia, tu c’ai

patitu tanta stienti,

passatu tanta uai

senza cu tti lamienti;

a ll’Angilu ticisti:

“so’ ancella del Signori!”

E ‘n cinta rumanisti,

ma ‘ntattu fò l’onori.

Tinci, sta Notti Santa,

a llu Bbambinu caru,

c’a cquai nci stannu tanta

cu nnu distinu amaru:

a cci no’ tteni tettu,

a cci no’ tteni pani,

a cci non’è pirfettu,

ci è ssenza mamma o ttani,

ci no’ nci po’ ffatiari

pircè no’ nc’è llavoru,

ci è ccustrettu a rrubbari,

ci è pperzu ogne dicoru,

ci stai ‘mmienz’a nna uerra

e pprea, sott’a lli bombi,

cu spiccia, ‘ntra sta terra,

cu scava sempri tombi.

Tinci, ‘sta Notti, a Ccristu

cu ppenza a tutti nui,

a ccu rrimetia: quistu,

lu puè ‘ffa’ sulu Tui!

Questa retrospettiva, certo non completa, sul dialetto e i poeti vernacoli termina con Gino Carrozzo; per fugare ogni dubbio, non a caso ho parlato di retrospettiva, una sola parola che, propriamente, significa: “guardare indietro nel tempo, per conoscere fatti e cose del passato aventi relazioni col presente”. Questo scritto, allora, non vuole avere la presunzione di essere una rassegna critica del dialetto e della poesia brindisina, ma intende portare un piccolo contributo sul dialetto, in quanto ogni produzione “in lingua” oggi risente di una proliferazione di massa (si paventa che scrittori e poeti possano addirittura essere in numero maggiore dei lettori) e omologata, direi banalizzata dai luoghi comuni del linguaggio mediatico. Il dialetto e ogni lavoro che ad esso si collega, oggi appare come una sorta di ritorno a una lingua autonoma, una lingua dell’anima e non del corpo adatta ai recuperi della memoria e di un’antica, primitiva identità che si pensa ancora priva di contaminazioni. La ragione unica e principale di questo scritto allora resta quella dell’auspicabile veicolazione, attraverso la moderna comunicazione telematica, “dell’antico idioma” ai giovani, per conservare e tramandare questo nostro patrimonio linguistico.

N.B. "Nulla fa tanto piacere a un autore quanto vedere le sue opere rispettosamente citate da altri dotti autori" - Benjamin Franklin

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