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Se il democristiano Renzi dimentica lezione e storia della Dc

Il partito era comandato da un gruppo di potenti cinquantenni, qualche sessantenne (Fanfani) e tirava aria di rinnovamento. Così a San Ginesio, nel settembre del '69, si tenne un convegno al quale furono ammessi Forlani, De Mita e Ciccardini

Avevano da poco superato i quarant’anni. Il partito era comandato da un gruppo di potenti cinquantenni, qualche sessantenne (Fanfani) e tirava aria di rinnovamento. Così a San Ginesio, nel settembre del ’69, siamo negli anni ribollenti delle rivendicazioni studentesche ed operaie, si tenne un convegno al quale furono ammessi Forlani, De Mita e Ciccardini subito identificati come “i quarantenni” appunto, perché era alta, si disse, l’esigenza di ridare slancio alla iniziativa politica della Dc.

La storia politica di quegli anni poi assegnò a quei giovani un ruolo importante nella guida politica dell’Italia e del loro partito. Un graduale processo di coinvolgimento attivato dai senatori, portò quegli uomini ai massimi livelli istituzionali, furono segretari della Dc, e quando proprio non avevano nulla da fare ricoprirono ruoli di ministro. Per tutti parla la carriera di Giulio Andreotti.

Litigarono, si scontrarono, furono a capo di organizzazioni correntizie dentro alla Democrazia Cristiana, spesso tra di loro contrapposte, eppure “La Democrazia Cristiana non ha speso quasi quarant’anni della sua vita per dimettere il bene più alto, quello della sua unità e della sua autonomia di scelte politiche”, così Flaminio Piccoli nella relazione da segretario del suo partito al XIV congresso che si celebrò a Roma nel febbraio del 1980.

L’unità di quel partito, strutturalmente diviso, celebrata come valore aggiunto e ritenuta il bene più alto da difendere e salvaguardare. In cinquant’anni di gestione del più potente potere politico, decine e decine di consultazioni elettorali, alcune anche dagli esiti disastrosi per la Dc, per citarne due il referendum sul divorzio e quello sull’aborto, mai scalfirono la caratteristica rivendicata e qualificata come “il bene più alto dell’unità”.

Più che dal collante ideologico dell'anticomunismo, pure fortemente sentito, era il potere e la sua gestione che teneva uniti. Spesso era causa di divisione e motivo per stare uniti. Il massimo della divisione praticata e anche consentita era costituito dalla fuoriuscita dalla compagine governativa che ciclicamente si formava, per poi rientrare in quella successiva dopo l'ennesima crisi di governo.

Potremmo dire: una stabile instabilità governativa. Anche quando arrivò il momento del redde rationem – per dirla con il Vangelo secondo Luca - di “Tangentopoli” i sopravvissuti di quel gruppo dirigente rimasero uniti e insieme accettarono la sorte a loro riservata dalla legge.

Ad appena dieci anni dalla nascita, e dopo appena tre anni di governo Renzi, il Partito Democratico all’esame della prima vera sconfitta politica conseguente al referendum costituzionale perso malamente, discute di scissione. Per quello che si riesce a capire, ed anche a vedere, il motivo del contendere appare più una guerra di posizionamento che una discussione sui temi concreti della crisi.

Anche perché, su molti di quei temi, quando si è trattato di decidere e di votare, si registrò un consenso di tanti tra quelli che oggi vorrebbero smembrare il Partito Democratico. Quanto di questa discussione riguardi l'interesse del paese, e quanto invece non sia una naturale, ed anche legittima, richiesta di rendere conto delle scelte di governo risultate sbagliate, ancora non appare chiaro.

Chi crede, tuttavia, che sia la scissione la soluzione dei problemi posti dalla crisi, ed ancora non risolti, sbaglia di grosso. Soprattutto per chi si propone di governare questo paese anche nel contesto del mondo moderno.

Per chi invece, attraverso la scissione, vorrebbe riprendere una leadership, persa qualche  anno fa con le primarie che portarono Renzi alla segreteria del Partito Democratico, sperimenterà, ancora una volta "quanto è duro calle lo scendere e il salir per l'altrui scale".  

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