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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca

Carcere duro confermato per Antonio Vitale, ritenuto capo Scu

Il Tribunale di Sorveglianza di Roma respinge l'istanza con cui la difesa aveva impugnato il decreto del Ministro della Giustizia. Gli avvocati ricorrono in Cassazione. Il brindisino, alias il Marocchino, ha 48 anni: è al 41-bis dal 1999, in cella da 29 anni. Da detenuto si è diplomato e si è iscritto all'Università

BRINDISI – Carcere duro, al 41-bis, confermato per Antonio Vitale, 48 anni, brindisino, ritenuto uno dei capi della Sacra Corona Unita, condannato in via definitiva con l’accusa di aver diretto l’associazione di stampo mafioso e di aver fatto parte del cosiddetto “clan dei mesagnesi” che nel frattempo ha perso pezzi con i recenti pentimenti.

Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, nelle scorse settimane, ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati difensori del detenuto, Cinzia Cavallo e Marcello Falcone, entrambi del foro di Brindisi, pronti ora a ricorrere in Cassazione: i difensori avevano impugnato il decreto firmato dal Ministro della Giustizia con cui è stato disposto il carcere duro per i prossimi due anni.

Il provvedimento del Guardasigilli, Andrea Romano, è stato adottato alla scadenza del biennio precedente, sulla base di elementi tali da confermare l’affermazione dello status di pericolosità di Vitale essendo ritenuta concreta la capacità di mantenere contatti con l’esterno del carcere,  nonostante il mesagnese sia in cella da 29 anni ormai, 17 dei quali trascorsi al 41 bis in maniera ininterrotta.

Vitale è in carcere da quando aveva 19 anni e venne preso per una rapina, dal 1999 è stato disposto nei suoi confronti il regime della detenzione dura, fortemente limitativa dei punti di contatto anche interni al carcere. Il decreto del ministero della Giustizia arrivò all’indomani della prima condanna per appartenenza a un sodalizio di stampo mafioso con  riferimento all’appartenenza al gruppo, nel ruolo di vertice, sino al finire degli anni Novanta.  

Stando all’ordine cronologico dei processi in cui il mesagnese è stato imputato, c’è stato quello scaturito dall’inchiesta chiamata “Aggiano”, con condanna a otto anni di reclusione, a seguire il procedimento “Carbone”, con pena pari a sei anni, poi “Mediana” risalente al  2000 per il quale sono arrivati tredici anni.

Da 19 anni, quindi, vive in carcere in condizione di isolamento massimo, in una cella singola, senza accesso a spazi comuni come la palestra, con un’ora d’aria al giorno. E ancora colloqui limitati con i familiari senza possibilità di contatto fisico essendoci l’obbligo di un vetro a dividere il detenuto e i parenti, una telefonata al mese con quelli autorizzati, controllo della corrispondenza spedita e ricevuta.

In regime di carcere duro Antonio Vitale si è diplomato e ha deciso di proseguire gli studi iscrivendosi all’università. In alcune occasioni ha partecipato in videoconferenza a processi davanti al Tribunale di Brindisi, l’ultima delle quali risale all’11 aprile 2011, quando era in corso il dibattimento a carico dei fratelli Giovanni e Raffaele Brandi, accusati di aver fatto parte di un’associazione mafiosa (accusa che respingono e hanno appellato la sentenza di condanna).

“Mi sembra che Ercole Penna è un mio coimputato, mi pare di averci parlato. Se mi dà qualche particolare forse è meglio”, disse quella Ercole Pennavolta. “Ero in detenzione, mi pare nel corso del processo Carbone che si è celebrato nel ‘98”. Penna, dal canto suo, si è pentito a novembre 2010 e ha fatto mettere a verbale di aver assunto la direzione della Scu assieme a Vitale, a Daniele Vicientino e a Massimo Pasimeni, ma la verità riferita da Vitale è altra: Io a Penna lo conosco appena, l’ho visto in udienza preliminare a Lecce e lettere non mi ricordo di aver scritte, ma al 41 bis c’è la censura, tutto è sotto controllo, quindi la posta in entrata e in uscita viene fotocopiata e messa agli atti”.

Conoscenza fugace anche quella con Massimo Pasimeni, nel periodo della comune detenzione prima del carcere duro, nessuna conoscenza dei  fratelli Brandi.

Nel 2010, Vitale venne assolto dall’accusa di avere minacciato Massimo D'Amico, alias Uomo Tigre, poi diventato collaboratore di giustizia. I fatti risalgono ai tempi di uno dei processi in cui Vitale era imputato e D'Amico l'accusatore. I due erano in videoconferenza e il pentito riferì di un gesto di minaccia, rispetto al quale il Tribunale pronunciò assoluzione perché il fatto non sussiste.

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