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Cronaca Oria

Ancora libero a 6 anni dall'omicidio. Il pm: "Per la pena ripartire da 30 anni"

ORIA - Sepolto vivo dal branco a 17 anni. Uno dei tre presunti assassini, condannato in primo a grado a 16 anni per omicidio volontario e occultamento di cadavere, tornò in libertà poco prima della scadenza dei termini di custodia cautelare, era il 2005. Da allora, l’oritano Luigi Caffa che oggi ha 25 anni, in carcere non è mai più tornato, per lungaggini processuali che ne hanno fatto salva la libertà, malgrado la certezza inoppugnabile che anche lui facesse parte del commando che uccise, a furia di martellate, Joseph De Stradis. Era il 20 aprile 2004. Sei anni dopo, il pubblico ministero della procura di Taranto Ciro Saltalamacchia, torna a chiedere il conto per Caffa, invocando in appello la rideterminazione della pena a partire “dal limite massimo di trent’anni”.

ORIA - Sepolto vivo dal branco a 17 anni. Uno dei tre presunti assassini, condannato in primo a grado a 16 anni per omicidio volontario e occultamento di cadavere, tornò in libertà poco prima della scadenza dei termini di custodia cautelare, era il 2005. Da allora, l’oritano Luigi Caffa che oggi ha 25 anni, in carcere non è mai più tornato, per lungaggini processuali che ne hanno fatto salva la libertà, malgrado la certezza inoppugnabile che anche lui facesse parte del commando che uccise, a furia di martellate, Joseph De Stradis. Era il 20 aprile 2004. Sei anni dopo, il pubblico ministero della procura di Taranto Ciro Saltalamacchia, torna a chiedere il conto per Caffa, invocando in appello la rideterminazione della pena a partire “dal limite massimo di trent’anni”.

L’11 settembre del 2001 Joseph De Stradis si trovava a Manhattan col padre Lino, a pochi metri dall’esplosione che mandò in rovina le Twin Tower cambiando le parole d’ordine del mondo. Lui, ragazzetto, sarebbe tornato ad Oria a raccontarlo con aria scafata da sopravvissuto, non sapeva che il destino non avrebbe concesso il bis. Era il 20 aprile 2004 quando in tre lo costrinsero a salire in auto e a seguirli all’inferno. Il capo del commando assassino, era anche l’unico adulto: il falegname Francesco Fullone, oritano come il resto della banda. All’epoca aveva 61 anni e più di qualche ragione di rancore nei confronti del ragazzetto ficcanaso che si era insinuato negli affari suoi, cercando di proteggere un’amichetta dalle attenzioni di lui, quarant’anni troppo più vecchio di quell’adolescente.

Joseph sapeva qualcosa che non avrebbe dovuto, una sola la maniera per zittirne l’indignazione.  Più di quanto avevano saputo fare gli inquirenti, ai quali la ragazza aveva denunciato qualche mese prima le attenzioni lascive del falegname, che rimase libero, con tutto quel che ne è conseguito. Joe, invece, l’aveva difesa, pronto a tutto. Coraggio che poi avrebbe pagato con la vita. Gli legarono i polsi con del filo di ferro e lo costrinsero, prima di imboccare la strada verso Torre Borraco, marina di Manduria, a telefonare alla giovanissima amica, dissuadendola dal parlare in giro delle insidie subite. Suggerimento di segno contrario a quello urlato tante volte. Joseph, in quella ultima telefonata, aveva la voce tremante come non l’aveva mai avuta prima. Costringerlo a telefonare si sarebbe rivelato poi un errore strategico da parte degli aguzzini, determinante nella evoluzione del percorso processuale a venire.

Quattro giorni dopo quel 20 aprile di sei anni fa, un uomo vide spuntare una scarpa da ginnastica dalla sabbia. Così sarebbe stato trovato il corpo di Joseph. L’autopsia avrebbe svelato l’accanimento degli aguzzini, le torture, le botte, persino le sevizie. L’ultimo colpo, creduto mortale, fu inferto con un martello. Ma l’esame necroscopico avrebbe rivelato un dettaglio agghiacciante. Quando il 17enne fu sepolto sotto la sabbia  respirava ancora. Gli investigatori, sollecitati anche dal clamore nazionale che il delitto meritò nelle cronache dell’epoca, chiusero presto il cerchio.

Il falegname, difeso dall’avvocato Giancarlo Camassa, fu l’unico ad optare per il rito ordinario, fu processato e condannato all’ergastolo, verdetto di primo grado emesso dalla Corte d’Assise di Taranto il 26 maggio 2006, ridotto a trenta anni in Appello (8 giugno 2007), condanna che Fullone sta ancora scontando. Il minorenne fu processato con rito abbreviato e condannato a 12 anni, con identiche accuse: omicidio volontario e occultamento di cadavere. Anche lui sta pagando il fio per la complicità nell’osceno delitto.

Il terzo uomo, quel Luigi Caffa che all’epoca aveva vent’anni (avvocato Pasquale Annicchiarico),  scelse anche lui il rito abbreviato che gli avrebbe guadagnato in caso di condanna lo sconto di pena di un terzo. La sentenza per lui sarebbe arrivata il 31 ottobre 2005, per i medesimi capi di imputazione, ma nel frattempo aveva lasciato il carcere per decisione del gup, lo stesso che avrebbe pronunciato la sentenza di primo grado. La scarcerazione richiesta dal difensore, fu concessa per ragioni di “equità”, data identica concessione di cui il minorenne del branco aveva goduto nel frattempo.

 Nelle fila dei legali di parte civile, Gianluca Schifone per la mamma Anna Ungaro, Fausto Passaro per il papà Lino e Antonio Maurino per il fratello Jonathan De Stradis, le motivazioni della libertà “regalata” hanno tutt’altra ratio: il presunto assassino sarebbe comunque tornato alla sua vita da lì a poco, nessun senso aveva trattenerlo in una cella in cui non sarebbe più tornato se le motivazioni della sentenza, così come è stato, non sarebbero state depositate per tempo. Non entro i canonici novanta giorni, e nemmeno cento: ma oltre 40 mesi dopo.

Il pm, consumatosi l’atto rituale del deposito delle motivazioni il cui ritardo ha fatto arenare tutto l’iter processuale, chiede adesso che al terzo, ma non ultimo, degli assassini, venga innanzitutto addebitato il reato di sequestro di persona. Caffa, dice il sostituto procuratore, faceva parte a pieno titolo del branco che sottopose Joe a “limitazione della libertà di movimento allorché, appena giunti a destinazione, gli fu apposto un cingolo metallico in corrispondenza del polso di sinistra e gli fu così impedito di allontanarsi”.

Ancora. A quello che era “il migliore amico” della vittima, furono concesse le attenuanti generiche, applicate dal giudice dell’udienza preliminare in ragione “della giovane età” dell’imputato, della mancanza di precedenti, e soprattutto dell’ascendente”  esercitato da Francesco Fullone nei confronti dei giovani che si riunivano nella sua falegnameria e quindi della soggezione che egli riusciva ad incutere”. Argomentazioni di natura “meramente indulgenziale”, secondo il pm, per il quale le aggravanti a carico dell’imputato ci sarebbero tutte anche in ragione del fatto che “nella condotta del Caffa non si ravvisa, né è stata prospettata, l’ombra di un movente. L’imputato era il migliore amico di Joe ed ha attivamente partecipato all’uccisione dello stesso senza alcun motivo, con ogni verosimiglianza solo per l’effetto di un’ineluttabile inclinazione al delitto”.

Assunti di inaudita gravità, tutti da dimostrare nel processo d’appello che inizierà ad ottobre. Comunque vada, resta un fatto che Joseph no. A casa non ci sarebbe tornato mai più. E il dolore di chi resta è muto. Come le grida d’aiuto che il ragazzo soffocò nella rena fredda d’aprile.

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