rotate-mobile
Sabato, 20 Aprile 2024
Cronaca

"I Bruno, un clan capace di penetrare nell'amministrazione della cosa pubblica"

BRINDISI - Poco meno di due secoli di carcere, 197 anni in totale per undici imputati, più una assoluzione. E' il bilancio presentato dal pubblico ministero Milto De Nozza nella requisitoria finale del processo a carico del presunto clan torrese capeggiato dalla famiglia Bruno. Associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di stupefacenti, intorno alle due principali ipotesi di reato a carico del clan decimato il 31 marzo 2008 dai carabinieri del comando provinciale di Brindisi, in uno con la stazione dell’Arma di Torre, si è dipanata la lunga discettazione del magistrato inquirente, in punta di diritto. Ma anche e soprattutto di fatti, di sentenze già passate in giudicato, di pronunciamenti del Riesame, di sequestri di armi e droga, e solo in ultimo di rivelazioni concesse da due collaboratori di giustizia, che non hanno fatto altro che confermare un quadro accusatorio già solidamente delineato, gravido di una mole impressionante di intercettazioni, molte delle quali considerate dal pm “di una evidenza schiacciante”.

BRINDISI - Poco meno di due secoli di carcere, 197 anni in totale per undici imputati, più una assoluzione. E' il bilancio presentato dal pubblico ministero Milto De Nozza nella requisitoria finale del processo a carico del presunto clan torrese capeggiato dalla famiglia Bruno. Associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di stupefacenti, intorno alle due principali ipotesi di reato a carico del clan decimato il 31 marzo 2008 dai carabinieri del comando provinciale di Brindisi, in uno con la stazione dell’Arma di Torre, si è dipanata la lunga discettazione del magistrato inquirente, in punta di diritto. Ma anche e soprattutto di fatti, di sentenze già passate in giudicato, di pronunciamenti del Riesame, di sequestri di armi e droga, e solo in ultimo di rivelazioni concesse da due collaboratori di giustizia, che non hanno fatto altro che confermare un quadro accusatorio già solidamente delineato, gravido di una mole impressionante di intercettazioni, molte delle quali considerate dal pm “di una evidenza schiacciante”.

“Seguo questa vicenda da cinque anni. Indagini preliminari, misura cautelare, dibattimento. Il giudizio abbreviato è stato un’esperienza giudiziaria complessa, a tratti umiliante, fatta anche di accuse rivolte personalmente al pubblico ministero. A differenza dell’altro, questo è stato un processo sereno, corretto, salvo piccole intemperanze. Questo è già un successo”, è stato questo l'incipit della lunga requisitoria che ha preso avvio alle undici terminando poco dopo le 14, prime battute  affidate alla memoria di quella sentenza di primo grado di fronte al tribunale di Lecce, a carico dei dodici imputati condannati a due secoli di carcere. Conto che fa perfettamente il paio con quello presentato oggi. Il pronunciamento di condanna inflitto all'associazione limitrofa e collaterale al clan Bruno, operativa nel traffico di stupefacenti fra Brindisi e Tuturano fu accompagnato da invettive contro il pm, che si levarono dalle celle ma anche dallo stuolo di parenti assiepati in aula. De Nozza dovette abbandonare il palazzo di giustizia, mentre i ragazzi della scorta che lo accompagnano da anni, gli si serravano intorno. Come hanno fatto oggi, da un punto all'altro dell'aula Metrangolo, guardata a vista.

Tre lunghe ore in cui il pm ha parlato a braccio, rammentando a memoria date, numeri, passaggi di conversazioni captate in ambientale e via cellulare. E un assunto chiave, intorno al quale ruota tutto il resto: l'accusa di 416 bis.

L'associazione a delinquere di stampo mafioso - “Dobbiamo innanzitutto decidere non se esiste un’associazione a delinquere soltanto, ma se esiste un’associazione a delinquere di stampo mafioso. Le fonti di prova acquisite nel dibattimento, ad avviso del pubblico ministero dimostrano che sì, quell'associazione esiste. Il territorio di Torre e i comuni limitrofi sono legati da un nucleo ristretto di comando, una sorta di holding che ha per fine specifico il controllo del traffico di stupefacenti. Se esiste una forza intimidatoria capace di creare un clima di omertà diffusa, allora c’è un’associazione a delinquere di stampo mafioso”, ha detto il pm. Prova provata di quel clima e di quella forza, e delle conseguenze ad esso connesse, la vicenda che vede coinvolta la principale accusatrice del boss pluriergastolano Ciro Bruno, dal quale l'attuale clan avrebbe ereditato lo scettro del comando sul territorio. Ciro Bruno, detenuto per oltre due lustri in regime di 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi di rango, è stato condannato con sentenza definitiva all'ergastolo per l'omicidio di Romolo Guerriero, fratello di Cosima detta Mina.

Pende di fronte alla Cassazione invece il giudizio definitivo per l'omicidio di Cosimo Persano, del quale Guerriero era autista. Entrambi sottoscrissero la propria condanna a morte per disobbedienza nei confronti del clan e del boss. Guerriero non fu capace di custodire le armi dell'associazione come avrebbe dovuto, tanto che furono ritrovate nell'azienda vinicola dove lavorava, a seguito di un blitz anti-sofisticazione della Squadra mobile. Peccato al quale si somma la pretesa di occupare uno spazio autonomo nel traffico di tabacchi lavorati esteri. Persano viene invece accusato di aver commesso una rapina ai danni di una bisca di proprietà nientemeno che di Pino Rogoli, il capo fondatore della Scu. Peccati di lesa maestà pagati con la morte, in entrambi i casi. Romolo Guerriero scompare il 29 maggio 1990, un anno dopo scompariranno anche i genitori, il 20 giugno ’91, per avere osato condurre indagini private volte a ritrovare il figlio.

Dopo aver pianto la scomparsa e la morte di tutta la famiglia, Mina Guerriero decide di rompere il muro di omertà entro il quale la città tutta intera sta rinchiusa, parla e punta il dito contro Ciro Bruno. Non è vero che non abbia più nulla da perdere, la donna ha una nuova famiglia e la sua stessa vita da proteggere, ma quella vita non sarebbe valsa senza quel gigantesco atto di coraggio per il quale dagli anni Novanta vive in località protetta. Mina Guerriero parla, accusa, il boss finisce in galera.  La donna tenta nel frattempo di mettere in vendita il patrimonio immobiliare e terriero di proprietà della sua famiglia, ma nelle contrade e sulle case compaiono le prime scritte: “Chi compra muore e muore anche chi coltiva, siamo nel '91”, ha rammentato il pubblico ministero per il quale direttamente collegati a questi antefatti sono le vicende successive. Poco meno di vent'anni dopo quei beni restano invenduti.

Lo dichiara in aula il 15 ottobre 2009 Sergio Palma, maresciallo dell'Arma e curatore generale dei beni di Mina Guerriero, lo conferma a gennaio dell'anno successivo il comandante della stazione di Torre Santa Susanna maresciallo Francesco Lazzari. “Lascia o muori, chi compra muore”, sono queste le scritte gemelle che compaiono su quegli stessi immobili nel 2005, nelle ore immediatamente successive all'affissione dei cartelli di vendita da parte del curatore. Due potenziali acquirenti si fanno avanti, uno deposita di fronte al notaio una caparra da 10mila euro. Uno verrà pestato a sangue, non ha mai saputo dire da chi, anche se gli aggressori agirono a volto scoperto alle venti in pubblica piazza. L'altro disse che rinunciava all'acquisto, che non voleva più saperne, che era anche disposto a cedere la caparra pur di cavarsi fuori da quell'affare.

“Cosima Guerriero sfonda il muro di omertà – puntualizza il sostituto procuratore -. E’ lei il comune denominatore di tutti questi fatti e dei processi che ne sono scaturiti.  La portata intimidatoria di queste scritte, sempre le stesse, è di tutta evidenza, anche a distanza di dieci lunghi anni. Queste tre case sono simboli, non sono abitazioni qualunque. Hanno un altissimo valore simbolico: la casa di via Fortunato è quella che Romolo Guerriero stava raggiungendo prima di essere ucciso. Via Duca D’Aosta era la casa dove vivevano i genitori di Cosima Guerriero, fatti sparire per aver osato avviare indagini private alla ricerca del figlio. Contrada Monticelli è il terreno dove viene seppellito Romolo Guerriero. Il divieto di alienabilità è posto da un uomo su tutti, il capo: Andrea Bruno”.

Mafia e società civile - La forza di intimidazione è il primo degli indici sintomatici dell'esistenza di una associazione a delinquere di stampo mafioso a Torre Santa Susanna, di cui quei fatti sarebbero prova, secondo il pm. Ipotesi consolidata a partire dall’evidenza della natura gerarchica della struttura, fondata sugli ordini impartiti dai capi, Andrea Bruno in qualità di massimo vertice, Vincenzo Bruno e Emanuele Melechì, immediatamente dopo. “E’ Bruno che detiene il potere assoluto di autorizzare. Lo dimostra più di un’ambientale, oltre alla celeberrima frase rivolta al figlio di Ciro Bruno dal capo in seconda Emanuele Melechì: ‘Chi ti ha dato l’ordine di andare?’, dice a Vincenzo Bruno. Frase che secondo il pm evidenzia un rapporto subordinato. E' la capacità di impartire ordini che disciplina i rapporti di comparaggio interni all’associazione ma anche fuori, e di quel rapporto il linguaggio è sintomo eloquente. “L'ordine vale per autorizzare azioni a danni di terzi, ma anche a impedire azioni nei confronti degli affiliati, strumento di controllo dunque ma anche di protezione”, ha detto De Nozza, passando al sodo del capitolo più oscuro di tutta la vicenda legata al presunto clan Bruno.

“L'associazione mafiosa per essere tale deve conquistarsi un riconoscimento da parte della società civile, è questa la resina che unisce tutti questi elementi. La qualità di mafioso non deve essere solo auto-riconosciuta. La differenza sta in questo, il riconoscimento legittimante della struttura di comando. Essa esiste, e la gente sa ad essa può fare ricorso per risolvere i problemi”, è la forza dell'Antistato. “Sistema le cose in questo paese, che le cose devono rimanere come dici tu”, dice un interlocutore non identificato ad Andrea Bruno in una delle conversazioni captate in ambientale. Spesso, è un'altra delle caratteristiche della condotta tipicamente mafiosa, la natura criptica del linguaggio adoperato nelle conversazioni, in una delle quali Andrea Bruno intima esplicitamente: “Dovete parlare di formaggio e di ricotta”. A chiudere il cerchio le numerose conversazioni in cui gli imputati parlano di mantenimento economico degli affiliati, denaro inviato ai carcerati in nome del patto non scritto di mutua, reciproca assistenza economica: quando gli altri sono dentro, e quando dentro ci sono loro.

Mafia e politica - E' questa la pagina più controversa del romanzo criminale di contrada Canali. Il pm ne ha parlato sillabando con prudenza i nomi dei vari “Saccomanno, Vitali, Friolo, Rollo, Moretto per i quali il clan faceva il tifo in campagna elettorale, ma non è questo il punto, ciascuno legittimamente tiene per chi vuole”, anche del tutto all'insaputa dei candidati come nel caso di specie. “L’aspetto significativo – ha sottolineato il pm - è quello che emerge in una ambientale. Gli interlocutori sono Cosimo Damiano Torsello e Andrea Bruno: ‘Dobbiamo dire a Saccomanno che deve dare il posto, lo deve dare per forza: chi tieni sotto tu (al municipio)?’. La risposta è il nome dell'allora presidente del consiglio comunale Pino Moretto. E allora io mi chiedo: se ho necessità di agganciare un politico, chiedo chi conosci, chi ci può aiutare? Perché l'espressione tenere sotto ribadisce un regime di sudditanza. Andrea Bruno replica: ‘Vedi che qua stanno tutti a disposizione’, e ancora Torsello: ‘Gli dici devi mettere a posto il ragazzo sennò ti spacco la faccia. Se non lo metti sotto adesso non lo metti più. Con chi stai impegnato? Con Vitali? Non mi interessa a chi dobbiamo dare il voto, l’importante è che sia un cristiano che se lo merita. Che quando abbiamo bisogno si deve mettere disposizione’. Tutto questo dimostra una capacità di penetrazione nell’amministrazione comunale oltre che una disponibilità dell’amministrazione rispetto ai Bruno, che il Riesame ha giudicato come uno “spaccato impressionante della natura mafiosa dell’associazione”.

Collaboratori di giustizia e affari del clan - La premessa, più volta ribadita, è che le intercettazioni hanno autonomia probatoria, e che questo è un processo al netto di collaboratori. Il primo pentito, Giuseppe Passaseo, ha detto di avere sempre gestito droga, e che per esercitare il passaggio di posizione negli affari del clan ha dovuto transitare attraverso Vito Fai prima, Andrea Bruno poi. Affermazioni ribadite in seconda battuta da Ercole Penna. “Io con loro, i Bruno, non ho mai fatto reati, e non esisteva un nostro (dei Mesagnesi, ndr) capozona. A Torre esiste la famiglia Bruno, loro agiscono per conto loro, noi agiamo per conto nostro”. Penna ha detto anche di avere parlato con Carluccio detto Pacciani, che gli avrebbe riferito di avere incassato quasi un milione di euro per le sostanze stupefacenti.

“Qual è l'affare principe del clan? La droga è l’affare, perché non ha apparentemente nessun impatto sul territorio. Mi aspettavo che nel corso dell'esame Andrea Bruno parlasse esplicitamente della principale conversazione che dimostra gli affari del clan legati al traffico di stupefacenti”, ha chiosato il pm, “in cui si parla di Spagna, Olanda e Colombia, citate come luoghi da scandagliare. E parlano di ovuli, come strumento di ingresso. Discutono se sia preferibile correre il rischio di essere arrestati, acquistando la droga nei paesi d’origine guadagnando un cospicuo prezzo d’acquisto, oppure se far arrivare i corrieri in Puglia, sopportando l’aggravio di prezzo”. Perchè Bruno non ha parlato di tutto questo?, ha chiesto il pm, sottolineando che questo “Non è un processo di droga parlata. È un processo di droga trovata”. In due episodi su tutti, il primo risalente al 17 settembre 2005, l'altro il 18 marzo 2006.

Nel primo Emanuele Melechì viene trovato con un panetto di cocaina sul quale è inciso a fuoco un pesce stilizzato. Nega nel corso delle indagini, nega in sede di interrogatorio di garanzia, in ultimo chiede di parlare, qualche giorno addietro, e solo in sede di dichiarazioni spontanee finalmente confessa: “La cocaina trovata nel gabbiotto è mia”, perché non l’ha fatto prima? “L’intenzione confessoria è atto determinato dalla decisione di addossare a se stesso la responsabilità del fatto, privandolo della capacità di estensione a tutto il gruppo, a conferma delle dichiarazioni sia di Passaseo che di Penna”, ne deduce De Nozza. Il marchio del pesce stilizzato ricompare il 18 marzo 2006, quando viene arrestato Salvatore Diviggiano perché trovato in possesso di due fucili e quattro pistole con la matricola abrasa, cartucce, fiale di carbococaina, e due chili di cocaina che recano impresso il solito marchio di fabbrica, il pesce stilizzato. “O è una coincidenza. O evidentemente quel pesce ha la funzione di marchiare la sostanza che deve girare sul territorio – suppone il pm -. Nella sentenza di condanna a 18 anni, Diviggiano emerge come depositario di una organizzazione più vasta, agiva per conto di Bruno”.

Capitoli susseguenti, incalzanti, dello stesso tragico racconto criminale. Da cui le undici richieste di condanna, per un totale di 197 anni di carcere e una assoluzione (vedi articolo precedente).

In Evidenza

Potrebbe interessarti

"I Bruno, un clan capace di penetrare nell'amministrazione della cosa pubblica"

BrindisiReport è in caricamento