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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

Penalista ottiene modifica del codice

BRINDISI - Da una questione di ordinaria amministrazione processuale, per la caparbietà di un avvocato che proprio non aveva intenzione di arrendersi a un rigetto, ne è venuta una modifica del codice di procedura penale decisa nientemeno che dalla Corte Costituzionale.

BRINDISI - Da una questione di ordinaria amministrazione processuale, per la caparbietà di un avvocato che proprio non aveva intenzione di arrendersi a un rigetto, ne è venuta una modifica del codice di procedura penale decisa nientemeno che dalla Corte Costituzionale. L’avvocato è Ladislao Massari, penalista con studio a Brindisi e a Lecce. L’oggetto del contendere la misura cautelare da imporre a un indagato con posizione marginale in un processo per 416 bis.

Il giovane, di Trepuzzi, risponde soltanto di un episodio di estorsione, contestato però con l’aggravante dell’articolo 7 del Dl 152 del 1991, sia che si tratti di metodo mafioso o di favoreggiamento di una associazione mafiosa. Il comma 3 dell’articolo 275 del codice penale stabilisce che per i reati in qualche modo inquadrabili in scenari ‘mafiosi’ si possa applicare soltanto la custodia in carcere. Al ragazzo di Trepuzzi il gip aveva concesso invece i domiciliari. Il pm ha presentato appello, sostenendo proprio che non sarebbe stato possibile concepire altra misura restrittiva che quella dietro le sbarre.

Il legale, nel suo ricorso ha invece affermato che a quel punto, visto il ruolo per nulla nevralgico dell’indagato, si poteva invece propendere per la libertà. Massari ha quindi sollevato la questione di legittimità dinanzi alla Corte Costituzionale (è previsto l’accesso incidentale, in un processo in corso) e ha fatto i bagagli per una gita romana piuttosto impegnativa. Ha discusso, l’ha spuntata contro l’avvocatura dello Stato.

La Consulta il 25 marzo scorso ha così deciso: “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

Ciò perché: “Ne conseguirebbe un’ingiustificata parificazione tra chi abbia aderito ad associazioni di tipo mafioso o intenda agevolarle e chi, invece, senza appartenere ad esse intenda approfittare della condizione di assoggettamento dalle medesime creato per portare più efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso”.

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