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Mercoledì, 24 Aprile 2024
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"Quella polvere nera ci ha tolto la terra"

BRINDISI - Alcuni di loro, i più anziani, non hanno potuto leggere a voce alta la formula di rito per impegnarsi a dire la verità perché non sono in grado di leggere e scrivere. Tutti, uno dopo l’altro, hanno rivelato con orgoglio la propria professione.

BRINDISI - Alcuni di loro, i più anziani, non hanno potuto leggere a voce alta la formula di rito per impegnarsi a dire la verità perché non sono in grado di leggere e scrivere. Tutti, uno dopo l’altro, hanno rivelato con orgoglio la propria professione. Il pubblico ministero, Giuseppe De Nozza, ha ripetuto ogni volta la domanda. "Cosa fa lei nella vita?". "Il contadino", la risposta.

Sono gli agricoltori che possiedono terreni nei pressi del nastro trasportatore, del carbonile, della centrale di Cerano. In dieci, oggi in aula, da testimoni citati dall'accusa, hanno risposto alle domande del pm, prima, e della difesa poi. "I nostri prodotti non li compra più nessuno, o al massimo al cinquanta per cento del prezzo di mercato", la doglianza corale.

"Perché dovrei dare alla gente una fregatura? Non li ho raccolti neanche, c’era il carbone". Si parla di meloni gialli, di vitigni Negroamaro, del carciofo brindisino. Di prodotti che sono “icone” di questa terra. Ma anche di ortaggi vari, di pomodori e dei cavoli che finiscono sulle tavole in ogni dove, anche a Milano. "Le vede le mie mani? Sono io quello della foto" dice uno di loro, riferendosi a una delle immagini che si trovano nel fascicolo del pubblico ministero e che sono state mostrate in aula due udienze fa.

Le immagini "choc" che documentano la dispersione di polvere nerastra, polvere di carbone, sulle coltivazioni vicine ai tredici chilometri di nastro trasportatore della centrale Enel Federico II. Il processo in corso è quello iniziato il 12 dicembre del 2012: sono imputate 15 persone, 13 dirigenti Enel e 2 imprenditori locali (il legale rappresentante della ditta Cannone e quello della ditta Nubile, che si occupavano di trasporto o manutenzione per conto di Enel).

In attesa che venga analizzato il contenuto "scottante" del computer del manager Calogero Sanfilippo, si va avanti con le deposizioni. La difesa dell’Enel sostiene che quello che ha insudiciato un po’ tutto, lì intorno, perfino le torri stesse dell’asse attrezzato, non sia carbone; lo è invece per la Procura che ha contestato agli imputati due contravvenzioni: danneggiamento e getto pericoloso di cose. E lo è pure per gli agricoltori della zona, che sono anche parti civili (la gran parte di quelli esaminati oggi, difesi dall’avvocato Gianvito Lillo) che asseriscono che anche l’acqua dei pozzi artesiani fosse inquinata.

“Andiamo a prendere dalle fontane l’acqua che ci serve per cucinare, quella che usiamo per bere”. Tutti hanno dichiarato di aver subito conseguenze in tempi recenti, pur possedendo gli appezzamenti da decenni. Alcuni sono stati acquistati negli anni Quaranta. “In estate siamo costretti a vivere con le finestre chiuse e con il ventilatore acceso, perché se apriamo le finestre entra la polvere di carbone. Mia moglie e mia figlia non fanno altro che spolverare” ha detto uno degli agricoltori che ha aggiunto: “Soffriamo di allergie, asma”.

Un altro invece ha ricordato di aver dovuto fare ricorso alle cure dei medici del Pronto soccorso dopo una raccolta di uva: “Mi soffiavo il naso e usciva polvere nera”. “Abbiamo dovuto dismettere le colture estive – ha invece fatto notare un’altra persona – perché in quelle invernali si nota di meno”. Si è poi parlato di uva “Negroamaro” non venduta (“I commercianti non vengono a comprare i nostri prodotti”) ma anche di accordi transattivi e di proposte fatte dall’Enel per l’acquisto dei terreni in questione.

Quelli ascoltati oggi, e anche coloro che lo saranno il 18 dicembre prossimo, data in cui è stato rinviato il processo, sono i testi citati dall’accusa. Ve ne sono numerosi citati dalla difesa dei manager Enel, la cui ricostruzione dei fatti è di segno opposto. Saranno sentiti in seguito. Tra le rughe del volto, sulle mani callose di chi ha lavorato la terra una vita, c’è impressa la fatica ma anche una sapienza così antica, così accurata nei dettagli da riuscire a sostenere il fuoco di fila del controesame.

Loro sanno quello che fanno, il lavoro tramandato dai genitori, dai nonni. Sanno quanto vale un cavolo, un singolo carciofo. Sono perfettamente in grado di riferire quali sostanze siano in grado di impedire che si concluda il ciclo produttivo. Hanno cognizione delle date, degli accordi firmati. Delle “pressioni” subite. Uno degli ultimi a sedere al banco dei testimoni era un fiume in piena: “Mi hanno detto (dopo l’esposto in Procura in cui si denunciavano le conseguenze subite dalla dispersione di polveri di carbone, ndr) che a quel punto, visto che mi ero rivolto alla magistratura, avrei potuto continuare a farlo”.

C’erano in ballo accordi transattivi che non andarono a buon fine. “Mi tapparono la bocca” ha poi proseguito. Di quelle storie non si doveva parlare, per lo meno stando a una clausola di “riservatezza” riportata nelle carte, gli atti che certificavano il versamento agli agricoltori di somme elargite come ristoro per i danni alle coltivazioni.

Una delle testimonianze più significative? Per la terra di Brindisi lo è senz’altro la seguente: “I carciofi? Non si vedono più. Se dici che vengono da Cerano non li vuole più nessuno, li prendono solo in casi estremi, se c’è abbondante richiesta”. Era un marchio, un fiore all’occhiello. Come lo erano li “muluni” e l’uva “negroamaro”.

Ma, a quanto sostiene l’accusa, a quanto hanno accertato le indagini della Digos, a quanto continuano a ribadire con forza i proprietari dei campi coltivati che non celano la loro disperazione, gente che dice ormai di non aver nulla da perdere, ché neanche i terreni li comprerebbe nessuno, non hanno più alcun mercato. Sui i filari di vite, perfino sugli ulivi, è calato un velo opaco, una coltre di carbone.

 

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