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Venerdì, 29 Marzo 2024
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A cura di Blog Collettivo

Ospitiamo in questo Blog opinioni di alcuni cittadini Brindisini

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19 luglio 1992, i morti "normali" di uno Stato "diverso"

Un turista in Italia in occasione delle commemorazioni per le stragi di Capaci e Via d’Amelio, vedrà in questi giorni un Paese unito per ricordare le sue persone “normali”, le loro idee, quelle che avrebbero dovuto camminare sulle nostre gambe. Sono trascorsi venti anni da quegli omicidi fin troppo annunciati, la criminalità è cresciuta nei numeri (del fatturato), aumentando il radicamento sul territorio e nella pubblica amministrazione, complici da un lato leggi che sembrano fatte apposta per difficultare i processi di mafia, ( così Paolo Borsellino al Tg1 l’1 giugno 1992) e dall’altro, prescrizioni sempre più brevi. Una criminalità quella sì, che ha unificato il Paese, da sud a nord.

Un turista in Italia  in occasione delle commemorazioni  per le stragi di Capaci e Via d’Amelio, vedrà in questi giorni un Paese unito per ricordare le sue persone “normali”, le  loro idee, quelle che avrebbero dovuto camminare sulle nostre gambe. Sono trascorsi venti anni da quegli omicidi fin troppo annunciati, la criminalità è cresciuta nei numeri (del fatturato), aumentando il radicamento sul territorio e nella pubblica amministrazione, complici da un lato leggi che sembrano fatte apposta per difficultare i processi di mafia, ( così Paolo Borsellino al Tg1 l’1 giugno 1992) e dall’altro, prescrizioni sempre più brevi. Una criminalità quella sì, che ha unificato il Paese, da sud a nord.

Qualcuno direbbe che la responsabilità è delle Istituzioni e dei suoi abitanti, troppo sensibili alle prebende, ai piccioli, ma la  responsabilità di questo indietreggiamento è affare anche nostro, perché in fondo le mafie più che della legge, hanno paura dei cittadini che fanno il loro dovere e dello Stato, quando  fa lo Stato.  Ma che volete: in un Paese dove la prima piaga da combattere è  la corruzione e l’evasione fiscale, il governo si occupa da mesi di articolo 18, senza muovere un muscolo  per ripristinare il reato di falso in bilancio e le normative sulla trasparenza contabile. Perché i reati di criminalità economica presuppongono una copertura contabile, necessario l’occultamento in bilancio di fondi neri.

Ce lo chiede l’Europa,  ci sentiamo ripetere a proposito di articolo 18 ! Ma nessuno ci dice che  molte delle Convenzioni internazionali, da quella di Merida sulla criminalità organizzata a quella di Strasburgo del 1999 sulla corruzione, alle Raccomandazioni dell’Ocse, impegnano gli Stati su cinque fronti: trasparenza dei flussi contabili, finanziari,  prescrizione, “enforcement” (efficacia d’intervento degli organi preposti alla repressione), corruzione privata. Occorre riformare il diritto penale tributario: le soglie quantitative di evasione non penalmente rilevante sono alte. L’Italia poi, non punisce l’autoriciclaggio, il reato di chi accumula denaro illegalmente con tangenti, evasioni o altri traffici illeciti e poi lo ripulisce da sé. La prescrizione poi, è un’amnistia ingiusta, selettiva: rende impunita la criminalità economica, mentre chi commette reati di strada,  col moltiplicatore della recidiva sconta pene altissime e prescrizione lunghissima.

Anche questo ci chiede l’Europa, ma nessuno ce lo dice …. E  così il colletto bianco, interlocutore privilegiato della criminalità, di solito incensurato, colleziona prescrizioni e diventa un “incensurato a vita”. Certo che lo Stato ha le sue colpe, gravi, quando non ha la forza morale e materiale per combattere la criminalità, gravissime quando “tratta”, ma la vera scintilla del cambiamento è il cittadino che ogni giorno con le sue scelte, certamente  faticose,  nega consenso al  sistema di favori e di  rinunce,  che alimentano  quella criminalità.  Regalare il territorio  alla  criminalità dipende dalla scelta di essere cittadini o semplicemente abitanti, critici controllori sull'operato delle nostre amministrazioni, intolleranti al compromesso, risoluti nel fare “il nostro dovere”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino conoscevano i rischi di “fare il proprio dovere” consapevoli,  della fine  che li attendeva.  Borsellino tutti i giorni in vacanza, usciva da solo in bicicletta e alla stessa ora per comprare il giornale, si fermava davanti alla casa del boss per fargli capire che poteva ucciderlo senza altri morti. Anche in questo era  un cittadino, che sentiva la responsabilità del proprio ruolo.

E’ consapevole della sua fine, sa del carico di tritolo arrivato a Palermo : « Io accetto la... ho sempre accettato il... più che il rischio, la... condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. Il... la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in... in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare... dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro. » (Intervista a L. Sposini, primi di  luglio 1992). Fin qui il coraggio di questi morti. Dall’altra parte,  la solitudine, le campagne denigratorie, il fastidio dei vicini di casa,  dei politici di allora come di oggi, per chi fa il proprio dovere, l'impegno di uno Stato nella lotta alla criminalità episodico, fluttuante ed al risparmio.

C’erano le lettere al Giornale di Sicilia scritte dai vicini di casa di Falcone che nell’aprile 1985 lamentavano il fastidio delle sirene e il timore di un attentato che potesse coinvolgerli; gli articoli di Vincenzo Geraci, Iannuzzi, Guido Lo Porto, Scarpino che attaccarono il maxiprocesso che dal febbraio 1986 si celebrò nell’aula bunker di Palermo. Ha raccontato Paolo Borsellino al Csm il 31 luglio 1988: «Io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo essere segregati in un’isola deserta con le nostre famiglie: perché se l’ordinanza sul maxi-processo non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno. Io protestai, ma mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia. Dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le famiglie in quest’isola. Tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta»;  uno Stato mai del tutto determinato nella lotta contro Cosa Nostra, prigioniero di innominabili frequentazioni.

Perché “la trattativa non era l'eccezione ma la regola…. Trattativa è termine riduttivo, convivenza, coabitazione. Dallo sbarco americano in Sicilia fino probabilmente a oggi ci sono stati canali di contatto perchè nel contrasto alla criminalità organizzata non si andasse oltre una certa soglia”, dichiara oggi l'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, intervistato da Enrico Mentana. E così quei giudici e le loro scorte,  diventarono  Stato e Popolo insieme, vivendo come soldati in una guerra civile permanente.  Ma non è stato il tritolo ad averli uccisi:  gli esclusi,  erano loro.  Questi morti però, non hanno vissuto quella solitudine come un alibi per abdicare alle proprie responsabilità sociali, non hanno accettato le minacce come degne di condizionare le proprie scelte.    Veniamo ai conti …   Chi ha pagato?

Alla luce del sole, le manovalanze dello Stato o della criminalità, ancora ignoti i Committenti. Borsellino fu chiaro: Cosa nostra è un’azienda che fa affari e consente di fare affari.  Chi la combatte non combatte solo i mafiosi che sparano, che comprano diritti ed elargiscono favori e privilegi, ma  si ritrova in guerra con un mondo  nel quale i confini  tra bene e male  sono sfumati. Pezzi significativi di classe dirigente, di politici, traevano  e traggono potere e denaro dal dominio mafioso.   Pezzi di istituzioni guardavano con fastidio  a coloro che si frapponevano nella trattativa Stato–mafia.

Nell'estate del 1992, dopo l'uccisione del giudice Giovanni Falcone, alcuni ufficiali dei Ros dei carabinieri, tra cui Mario Mori, avrebbero avviato una trattativa con i vertici di Cosa nostra per fermare l'ondata di attentati, a fronte delle richieste contenute nel cosiddetto papello, tra cui la revisione del 41 bis. Fin dove si sia spinta questa trattativa non lo sappiamo ancora, ma qualcuno ci dovrà dire perché nel 1993 sono stati lasciati scadere circa trecento provvedimenti di carcere duro, revocato nel 2001 l'isolamento a Totò Riina, soppressi nello stesso anno  i servizi  di tutela fissa davanti alle abitazioni di pubblici ministeri e giudici impegnati in processi contro i boss, sostituendoli con «pattuglie mobili».

Ed ogni volta che una parte dello Stato si avvicina alla verità sul biennio 92-93, quello sul quale è nata questa Repubblica , un’altra parte dello Stato  vi si frappone, o dice di non ricordare,  oggi come allora. Il reato che la Procura sta perseguendo è quello di violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo al fine di condizionarne l’esercizio e se ci sono uomini dello Stato che hanno “indotto i mafiosi a certe mosse o hanno intermediato le richieste”,  risponderanno in concorso nella minaccia se ai magistrati sarà consentito fino in fondo, di “fare il loro dovere”.

Uomini di Stato quelli,  capaci di guardare molto lontano: “dinamico” definì Buscetta il metodo di indagine del giudice Falcone (intervista E. Biagi) ,  che nel  ’90 scriveva che “l’apertura delle frontiere  all’interno della Comunità  Europea favorirà  l’espansione della mafia e della criminalità  organizzata  con sistemi mafiosi” .  E soltanto poche settimane fa  il Parlamento Europeo  si è dotato di uno strumento  di azione antimafia.

E delle candidature insostenibili, della responsabilità politica, vorrei dire morale, Borsellino nel 1989 diceva: ”L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso,  quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose,  però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto.    E no! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di  carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi,  ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest'uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri,  cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe  vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il  politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai  stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla,  però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici  a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro  interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati.”

Anche il contestatissimo concorso esterno in associazione mafiosa era l’unica arma per recidere queste collusioni politico-istituzionali, ce l’hanno detto tante volte, a cominciare dalla sentenza del processo “maxi-ter”, il 17 luglio 1987: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa”. E – aggiungevano – è questa “convergenza di interessi” col potere mafioso […] che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.

Questa la nostra responsabilità: incapaci di capire che la guerra che combattevano nella solitudine e nel tradimento  riguardava tutti, riguardava un modo “altro” di essere, di vivere, di agire,  fuori dal compromesso, liberi. Con la criminalità non si tratta, questo era il loro modo “altro”, di essere e di agire. Se oggi  questo segmento di storia non è arrivato forse, ai risultati auspicati da taluni, lo dobbiamo al senso di responsabilità di persone normali, in uno Stato “diverso”, perchè  la lotta alla mafia ……. non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.

*Avvocato

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