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A cura di Blog Collettivo

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"Schiavi dell'on line: uno dei segni del nostro tempo"

"Persone che si sottopongono ad un sovraccarico di stress restando perennemente online per rispondere a mail, post e sms aziendali anche dopo l'orario di lavoro, nel tempo che invece dovrebbe essere riservato alla famiglia, agli hobby, al riposo"

“L’assenza sta diventando un lusso per pochi, come il silenzio. In forte sospetto di snobbismo” 
Michele Serra – L’Amaca 7.09.2016 

Segno dei tempi. L’introduzione in Francia del diritto alla disconnessione dopo l’orario di lavoro è proprio segno di questi tempi, caratterizzati da un livello diffuso ed elevato dell’uso della tecnologia che tuttavia non è servito a migliorare le condizioni lavorative degli uomini e delle donne ma le ha addirittura peggiorate, creando una nuova categoria di “schiavi: quelli dell’online, i costantemente connessi.

Persone che si sottopongono, in alcuni casi anche volontariamente, ad un sovraccarico di stress restando perennemente online per rispondere a mail, post e sms aziendali anche dopo l’orario di lavoro, nel tempo che invece dovrebbe essere riservato alla famiglia, agli hobby, al riposo. Un po’ per ansia di controllo sul proprio lavoro, un po’ per ansia da prestazione, un po’ per paura delle ritorsioni, anche solo in termini di diversa valutazione da parte di un “capo” tra chi comunque si rende sempre disponibile e chi invece non lo fa.
Grazie ad una tecnologia che ha aiutato ed aiuta ma che allo stesso tempo ha ingabbiato. Un’idea di maggiore libertà che di fatto si è tradotta in maggiori vincoli.
Segno dei tempi. Una legge per tutelare il diritto al tempo libero e alla vita privata, per garantire ai lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di non rispondere a mail e sms al di fuori dell’orario di servizio senza che ci siano contestazioni o ancora peggio ricatti.

Atteggiamenti comunque legati al perdurare del vecchio modello di organizzazione del lavoro, basato sul “dare” lavoro piuttosto che sul “creare” lavoro.  Si dà lavoro, si danno ruoli, mansioni, compiti, orari, turni, qualche volta anche strumenti, colleghi e procedure predefinite, pretendendo in cambio abitudine al consenso, senso di obbligatorietà.

Quando si crea lavoro si crea sviluppo e miglioramento a partire dalla piccola comunità che può rappresentare il gruppo di lavoro. Si lavora sulla condivisione di obiettivi, a tutti i livelli aziendali, di crescita personale attraverso il raggiungimento dei risultati aziendali, sulla valorizzazione di un ruolo sociale e sullo sviluppo di un senso di appartenenza alla collettività più ampia, quella in cui il soggetto economico agisce, sul valore delle competenze di ciascuno e dunque sul valore della diversità e dell’integrazione delle differenze in un tutto che diventa il vero valore aggiunto, il potenziale reale di crescita. Così facendo si raggiungono livelli di motivazione e di autostima importanti, tali da consentire indici di produttività positivi, a sostegno del raggiungimento del profitto dell’impresa. Non è forse questo il legittimo fine di ogni sana impresa?

A dare lavoro è un capo, a cui poi si dovrà ubbidire e che, nell’immaginario collettivo, cercherà di rubare tutto il nostro tempo, senza mai pagarlo adeguatamente,  e da cui quindi dovremmo da subito “guardarci”. A creare lavoro e crescita al contrario è un leader, che non ha bisogno di alzare i toni, di far valere la sua posizione di forza e il suo ruolo e far uso dell’arma del ricatto e della pressione psicologica, per imporre la sua autorità. E’ riconosciuto come leader per l’autorevolezza che “naturalmente” gli è attribuita.

Un modello vecchio di lavoro e di organizzazione aziendale che facciamo fatica a sostituire e che ancora segna il comportamento verso le donne e i più giovani. Un modello culturale e aziendale che appartiene in Italia a quel ceto sociale “vecchio”, rispetto ai nuovi tempi, che ancora occupa tutti gli spazi decisionali. E che non vuole assolutamente lasciare il passo, che non lavora sul passaggio generazionale e sulla formazione di un’altra classe dirigente, che continua a fare lobby e che cerca in tutti i modi di tenere lontani donne e giovani dal mercato del lavoro, coloro cioè che potenzialmente possono/potrebbero rappresentare oggi i più importanti portatori sani di cambiamento.

Ecco perché i nostri tempi vedono l’Italia fanalino di coda dell’Europa nelle politiche a sostegno della conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di vita, di cura e della famiglia e in quelle a sostegno dei bisogni e dei diritti dei giovani.

La Francia, quella stessa Francia delle 35 ore settimanali di lavoro”, ha registrato il più alto tasso di fertilità in Europa, a partire dagli anni ’90, dopo due decenni di declino, grazie ad aiuti economici alle famiglie (nate da un matrimonio  ma anche di fatto), parità di diritti tra uomini e donne e servizi sociali. Le donne sono incentivate a non lasciare il lavoro per occuparsi dei figli (proprio come si fa in Italia con l’aberrante pratica delle dimissioni in bianco). Così che il tasso di occupazione femminile è superiore al 60% (in Italia 46%). L’Italia chiude la classifica europea con 1,37 figli, tasso in continuo calo, contro lo 2,01 della Francia.

I numeri della fertilità in Europa inequivocabilmente ci dicono, a chi volesse ascoltarli, che si fanno più figli laddove le donne svolgono un ruolo importante nel mercato del lavoro, con l’ulteriore importante risultato della riduzione della povertà minorile. Il 2,5% del Pil in Francia va in spesa per le famiglie, in Italia l’1,03%. Meno che in Spagna, Portogallo e Grecia.

Nel nostro mercato del lavoro il diritto della lavoratrice e/o del lavoratore a conciliare tempo lavoro e tempo famiglia, separandoli e cercando per ciascuno spazi definiti, limitando le invasioni di campo del professionale nel personale, è considerato ancora una pretesa. Se non, per l’appunto, un atteggiamento in odore di snobbismo. 

E più del tasso di disoccupazione giovanile, che pure è di nuovo in aumento dallo scorso Luglio sfiorando il 40%, dovrebbe far pensare l’aumento dei  giovani inattivi ( con un tasso che ha praticamente doppiato quello di Francia e Germania), di coloro cioè che hanno del tutto rinunciato a cercare lavoro perché vinti dall’enorme rigidità del nostro tessuto sociale, quasi del tutto impermeabile ai cambiamenti, e da una totale mancanza di garanzie d’ingresso e di permanenza attiva nel mercato del lavoro.
Segno dei tempi. Siamo sempre più poveri ma continuiamo a rinunciare alle nostre vere ricchezze. In un silenzio, prima di tutto politico, questa volta davvero colpevole.

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