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A cura di Blog Collettivo

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Burnout: quando il lavoro diventa sofferenza

Gli incidenti aerei rientrano tra gli eventi che maggiormente colpiscono l'immaginario collettivo. Non a caso il cinema prende spesso in prestito questi velivoli per trame thriller, in cui l'evento improvviso, o il criminale di turno, acchiappa l'attenzione del telespettatore, continuamente sulla corda, intento ad analizzare lo svolgimento della trama

Gli incidenti aerei rientrano tra gli eventi che maggiormente colpiscono l’immaginario collettivo. Non a caso il cinema prende spesso in prestito questi velivoli per trame thriller, in cui l’evento improvviso, o il criminale di turno, acchiappa l’attenzione del telespettatore, continuamente sulla corda, intento ad analizzare lo svolgimento della trama.

Purtroppo quanto accaduto qualche giorno addietro, il 24 marzo per l’esattezza, tra le Alpi francesi dell’alta Provenza, ha superato anche l’immaginazione presente in alcuni film: non servono spie o  terroristi internazionali per seminare il panico, molte volte è l’elemento più imprevedibile, colui che passa inosservato, ad esser capace di innescare i peggiori scenari.

Il vecchio “apparecchio”, aereo, Airbus o Boing che dir si voglia, ha sempre rivestito il duplice ruolo simbolico di onnipotenza dell’ingegno umano ed al contempo di “condanna a morte” per chiunque avesse il coraggio di salirvi sopra: “si sa, se l’aereo crolla non c’è scampo” è il pensiero comune di molte persone che si son tenute sempre ad una rispettosa distanza da quegli uccelli metallici.

L’incidente di Méolans-Revel, che ha coinvolto l’Airbus A320, pone seri interrogativi sulla salute psichica di categorie di lavoratori particolarmente responsabilizzati, che hanno tra le loro mani, ed è proprio il caso di dirlo, la vita di numerose persone. Le indagini si sono orientate nettamente sulle responsabilità umane, dal momento in cui sono emerse le registrazioni che farebbero supporre chiaramente la presenza dello stato vigile del copilota ai comandi dell’aereo, sino agli ultimi istanti prima dello schianto.

Se il quadro indiziario dovesse rimanere immutato, e confermasse le tesi attuali, sarebbe lecito supporre che il pilota Lubitz abbia agito così in seguito ad un estrema condizione di burnout.
Il termine “burnout” venne coniato nel lontano 1930, in ambito sportivo, per indicare atleti “bruciati” dal successo sportivo ed incapaci di ripetere risultati e successi conseguiti in precedenza, pur avendone le capacità fisiche. Un Adriano ai tempi dell’Inter o della Roma, tanto per fare un esempio calzante e semplice.

Successivamente il termine venne esteso per indicare una patologia, con determinati e specifici sintomi, che spesso si abbatte su coloro che svolgono professioni con elevati gradi di responsabilità e con forti inclinazioni relazionali. Generalmente, i professionisti interessati a questi fenomeni risultano essere  medici, psicologi, odontoiatri, infermieri e così via.

Il burnout è una sindrome caratterizzata dall’esaurimento emotivo del lavoratore, che può provocare episodi di depersonalizzazione e derealizzazione, influenzando i valori, l’umore e la volontà del soggetto colpito.

Per depersonalizzazione si intende una sensazione di  estraneità rispetto al proprio corpo.

Quest’ ultimo prende le sembianze di un costume posticcio che cela un’entità staccata da tutto il resto. Sensazioni, ricordi e pensieri sono presenti ma non vengono percepiti come propri. L’aumentare di questo stato accresce il timoredi perdere il contatto con la realtà e con se stessi; gli elementi fondamentali per l’uomo ( tempo, spazio e identità) indeboliscono la loro stretta aderenza con la psiche dell’individuo.

La  derealizzazione si manifesta tramite la sensazione di sentirsi fuori dalla realtà, come su un piano diverso. L’individuo si sente estraneo da ciò che pensa e ciò che dice.  Viene a mancare la percezione di esser dentro la vita che si conduce, in favore di una proiezione esterna, come se ci si trovasse di fronte a un televisore che trasmette ogni istante della nostra vita. Ciò si traduce con un’identità cristallizzata ed estranea da ciò che si pensa di essere e da ciò che si ricorda.

La causa di questa sindrome è da addurre ad una debolezza personale tendente alla depressione, la quale si innesca esclusivamente in presenza di professioni stressanti, che implicano elevate responsabilità e turnazioni poco compatibili con le proprie inclinazioni personali.

Il burnout è tipico delle situazioni in cui è presente un forte contrasto tra l’impegno richiesto dalla professione (procedure, valori trasmessi, richieste cognitive) e le effettive risorse del lavoratore, che lo portano, in breve tempo, a bruciare tutte le sue energie, prosciugando ogni prospettiva futura. Alternativamente agli stati depressivi, si può presentare un cinico distacco nei confronti della professione che si esercita, con effetti fortemente deleteri sulla prestazione lavorativa. Queste caratteristiche fanno sì che la malattia sia esclusivamente “occidentale”, in virtù dello stile di vita imposto dalle moderne società.

Ad oggi ci sono accesi dibattiti se l’etiopatogenesi di questa malattia sia attribuibile a fattori personali, oppure se sia indotta prevalentemente dal contesto sociale e lavorativo. Questa sindrome infatti può esser contagiosa ed espandersi ad interi settori lavorativi ed equipe in breve tempo. In effetti, è stato dimostrato che alcuni elementi, quali il sovraccarico lavorativo, la scarsa remunerazione  e l’assenza d’identificazione col proprio lavoro, siano elementi altamente correlati alla sindrome.

I sintomi sentinella di un lavoratore affetto da burnout sono: Cognitivo/emotivi: Difficoltà di concentrazione, demotivazione lavorativa, problemi del sonno, distacco emotivo, cinismo e forte calo dell’umore; Comportamentali: Abuso di droghe, alcool e psicofarmaci, assenteismo, ed aggressività verso gli utenti; Fisici: Disturbi intestinali (gastrite, stitichezza), senso di debolezza,  "astenia”, emicrania e inappetenza.

Il trattamento di questo disturbo è possibile con le cure cognitivo-comportamentali, le quali prevedono l’analisi dei pensieri riferenti il senso di frustrazione (verso clienti ed azienda), genesi dell’insoddisfazione che pervade la psiche sofferente. La ristrutturazione cognitiva agisce sui concetti colpevolizzanti, da cui nasce il disagio capace di far perdere la ragione anche al miglior professionista.

Analogamente, le tecniche mindfulness aiutano il paziente a prendere consapevolezza con i suoi stati più negativi, che vengono accettati ed affrontati con un nuovo senso d’accettazione. Come tristemente dimostrato dai fatti accaduti in Francia qualche giorno addietro, è fondamentale diagnosticare ed intervenire su episodi che lascino presagire un disagio, seppur velato, nei lavoratori sottoposti ad attività stressanti.

Del resto, il lavoro viene descritto dalla nostra Costituzione come un diritto troppo prezioso e necessario, è inconcepibile che esso provochi una qualche sofferenza, e lo stato di benessere del lavoratore diventa un dovere ed una priorità in quei mestieri capaci di condizionare l’esistenza di numerose persone inconsapevoli del pericolo che potrebbero correre.

Per richieste specifiche su temi da affrontare prossimamente, potrete inviare i vostri suggerimenti all’indirizzo e-mail posto in calce a termine dell’articolo. (v.brugnola@libero.it)

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