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Venerdì, 19 Aprile 2024
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A cura di Blog Collettivo

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Caso Cucchi: che l’Autorità dello Stato torni a riposare sulla ragione

"La Corte d'Appello di Roma, visti gli articoli 605 e 530, secondo comma, del codice di procedura penale, in riforma della sentenza emessa dalla terza corte d'assise di Roma in data 5 giugno 2013, assolve Fierro, Corbi, Bruno, De Marchis, Di Carlo perché il fatto non sussiste: assolve Caponetti dal capo C perché il fatto non costituisce reato e dai residui d'imputazione perché il fatto non sussiste. La Corte conferma nel resto l'impugnata sentenza e fissa in giorni novanta il termine per il deposito delle motivazioni"

“La Corte d’Appello di Roma, visti gli articoli 605 e 530, secondo comma, del codice di procedura penale, in riforma della sentenza emessa dalla terza corte d’assise di Roma in data 5 giugno 2013, assolve Fierro, Corbi, Bruno, De Marchis, Di Carlo perché il fatto non sussiste: assolve Caponetti dal capo C perché il fatto non costituisce reato e dai residui d’imputazione perché il fatto non sussiste. La Corte conferma nel resto l’impugnata sentenza e fissa in giorni novanta il termine per il deposito delle motivazioni”. Piccola interruzione pubblicitaria, giusto il tempo di provare inutilmente a deglutire. E’ stato così, in quest’attesa, che mi è venuto in mente il Piccolo principe di Saint Exupèry quando il re spiega appunto al piccolo principe che l’autorità riposa soprattutto sulla ragione: “Se ordini al tuo popolo di andare ad affogare in mare-disse il re- allora farà la rivoluzione”.

Leggo sull’Espresso di questa mattina: “Lo Stato può punire i responsabili di un crimine per le proprie colpe politiche e gestionali anche se quelle penali non si dovesse riuscire a dimostrarle - scrive il giudice Livio Pepino. Nell’agosto del 1985 un giovane calciatore fu picchiato a morte da alcuni poliziotti di Palermo perché ritenuto colpevole dell’omicidio del commissario Giuseppe Montana: l’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro fece subito dimettere il capo della Squadra mobile, il capitano dei Carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. E non perché fossero ritenute persone coinvolte penalmente nel pestaggio. Magari erano altrove ma sotto la loro guida si era formata quella squadra, quella prassi, quel modo d’agire ed essendo i capi dovevano essere puniti per dare un segnale a tutto il corpo dello Stato”.

Rivolgo lo sguardo a seicento chilometri, direzione nord ovest, stringendo queste parole tra le mani. Mi sarebbe piaciuto fosse calato un silenzio curiale in quelle quattro mura autoritarie della Corte d’Appello ma vi ritrovo solo reticenza costituzionale e dita perverse in punta di piedi tra i banchi degli imputati: al di là delle inferriate, in quel caos calmo di silenzi familiari vi ritrovo l’onestà, quasi in disparte, seduta tra il torto e gli ultimi della classe. Ed infine la foto cianotica di un corpo lapidato che viene sventolata come un accendino nel bel mezzo di questo buio pomeridiano. Mica ce lo avrei avuto io il coraggio di mostrarti in pubblico ma i banditi non hanno diritto alla segretezza: magari una persona sana avrebbe resistito a tutti quei calci ma tu no, avevi un passato da tossicodipendente ed eri più vulnerabile degli altri. Eri un minus habens e per questo tutti quei calci assumevano la loro infame legittimità.

Fosse stata una sentenza antecedente al 1989, avrei potuto parlare ancora di “formula assolutoria dubitativa” e tutta questa esultanza lugubre in aula forse non l’avrei neppur sentita: dopo la riforma del codice di procedura penale del 1989 si parla soltanto di formula assolutoria piena anche in ipotesi di “insufficienza di prove”, è il tuo caso Stefano. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola la chiama bugia, è un delinquente”, mi suggerisce un drammaturgo venuto da lontano, Bertold Brecht. Serve questa dannata verità a riproduzione non casuale, fatta di punti esclamativi e non di puntini di sospensione: serve a questa piccola Italia che continua a camminare in dormiveglia finché i suoi più intimi figli non appaiono tra gli annunci funebri.

Altra interruzione pubblicitaria: sento il rumore delle macchine da scrivere nelle tipografie, l’inchiostro ancora caldo, gli scatti metallici di cambio rigo, e leggo in filigrana che Ilaria Cucchi è stata querelata dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria per “istigazione all’odio”. Continuo a ripetermi: “Se ordini al tuo popolo di andare in mare ad affogare, allora farà la rivoluzione”. Ecco perché serve questa dannata verità: perché ne ho le palle piene delle scritte Acab che francobollano i muri, della folla che sceglie Barabba e dei tribunali del popolo. Che l’Autorità dello Stato torni a riposare sulla ragione.

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