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Mercoledì, 24 Aprile 2024
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A cura di Blog Collettivo

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Ecco perchè il Decreto Dignità non è una sconfitta storica del precariato

Non solo perché, com'è risaputo, il lavoro non si crea per decreto, ma anche per il motivo che i governi di destra, di sinistra, di centro, hanno solo modestissimi strumenti per influire sulle dinamiche economiche

Ormai ci siamo quasi abituati. Mario Monti chiamò il suo Decreto per mettere i conti in ordine Salva Italia; Matteo Renzi si ispirò a Roosevelt chiamando il suo Decreto sul lavoro Jobs Act; Luigi Di Maio, per non essere da meno, ha chiamato Decreto Dignità un Decreto che nelle intenzioni dovrebbe scoraggiare l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Al di là dei titoli altisonanti si tratta di un aumento delle aliquote previdenziali per i datori di lavoro ( dall’1,4% in più rispetto ai contratti a tempo indeterminato all’1,9%) e di una riduzione della durata massima del Contratto da 36 a 24 mesi; per i contratti a tempo indeterminato si prevede invece un incremento del 50% del risarcimento massimo che il giudice può concedere al lavoratore nel caso di licenziamento ritenuto ingiustificato (dall’equivalente monetario di 24 mesi a 36 mesi).

Delle altre previsioni del Decreto non parliamo qui perché c’entrano poco o punto con l’obiettivo di scoraggiare il lavoro precario. Questo Decreto non stravolge il cosiddetto Jobs Act , e mette in atto alcune idee già discusse dalla Commissione Lavoro presieduta nella scorsa legislatura da Cesare Damiano. Alcune sono a mio avviso positive, come la riduzione della durata massima a 24 mesi, che ci avvicina agli standard di alcuni paesi europei.

E sono probabilmente troppo allarmistiche le previsioni di chi paventa che i datori di lavoro lascino a casa il lavoratore al termine dei 24 mesi per assumere un nuovo dipendente. I pessimisti sostengono infatti che si corre il rischio che i 900.000 contratti in scadenza ad agosto e il milione e 600.000 in scadenza a dicembre si riducano significativamente a beneficio del sommerso. Speriamo che essi abbiano torto. Generalmente chi utilizza i contratti a tempo determinato, già oggi più costosi, si muove su un terreno molto distante dal grande magma dell’economia sommersa, ed è in gran parte sensibile al rischio di disperdere una professionalità formata in azienda.

Inoltre, al di là delle apparenze, il Decreto Di Maio ha confermato l’aspetto più controverso del Jobs Act  renziano, cioè l’abolizione per i nuovi contratti del celebre articolo 18, che prevedeva la possibilità per il giudice di ordinare il reintegro per i licenziamenti ritenuti ingiustificati. Ha solo aumentato la misura minima dell’indennizzo, portandola da quattro a sei mesi, e quella massima, portandola da 24 a 36 mesi. Ovviamente l’entità dell’indennizzo rimane comunque sempre proporzionata all’anzianità aziendale del lavoratore.

Credo che molti imprenditori temessero più il ritorno all’articolo 18, che i pentastellati avevano promesso, che non l’incremento della misura massima di indennizzo. Anche perché nessuno dice chiaramente che la percentuale dei licenziamenti ingiustificati, anche in vigenza dell’articolo 18, rappresentava e rappresenta una quota minuscola del totale dei licenziamenti motivati con la cosiddetta ‘giusta causa’.

Se i pronostici meno pessimistici (ovvero che il Decreto non cambierà radicalmente la situazione ma non la farà nemmeno precipitare) sono o meno fondati,  saranno i dati dei prossimi due-tre anni a verificarlo, così come i dati degli anni trascorsi dal Jobs Act hanno confermato che l’elemento obiettivamente più efficace  nella lotta al precariato del Decreto legislativo firmato da Renzi ha riguardato la introduzione della decontribuzione per gli assunti a tempo indeterminato, cioè un incentivo positivo e non punitivo, che ha moltiplicato nel primo periodo le trasformazioni  a tempo indeterminato, salvo poi perdere la spinta iniziale con la riduzione degli incentivi.

Per il momento possiamo facilmente pronosticare che il Decreto Dignità, pur con i suoi aspetti positivi, non passerà alla storia come la sconfitta storica (una Waterloo napoleonica) del precariato; non solo perché, com’è risaputo, il lavoro non si crea per Decreto, ma anche per il motivo che i governi di destra, di sinistra, di centro, hanno solo modestissimi strumenti per influire sulle dinamiche economiche. Se le leggi contano 10, e il loro successo è sempre incerto,  l’automazione e la robotica contano 100, persino più della globalizzazione, ed incidono con certezza su tutti i settori (si pensi al commercio tradizionale in crisi a causa dell’e-commerce).

Quindi farebbe bene Di Maio a non paragonarsi al Duca di Wellington che sconfisse Napoleone, anche per evitare che tra qualche mese anche i suoi simpatizzanti comincino a chiamarlo Capitan Trinchetto. Chi era costui? Un simpatico personaggio dell’epoca di Carosello che raccontava, con spiccata cadenza genovese, balle a ripetizione, mentre il suo interlocutore rivolgeva  simpaticamente una esortazione: “Cala Trinchetto!”, e lui imperterrito: “Con  voi non si può raccontare niente!” (https://youtu.be/H0-fZt6lSq0).

Francesco Saponaro

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