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Sabato, 20 Aprile 2024
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A cura di Blog Collettivo

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Ecco perchè il Pd che conosco non serve più né a se stesso né al Paese

Una riflessione sofferta dopo lo psicodramma messo in scena dal Partito Democratico si impone; va detto anche che da un po’ auspicavamo la rappresentazione dell’ultima replica, salvo poi a scoprire il giorno dopo che in programma ce n’era un’altra. Non ho mai sparato al passaggio della Croce Rossa, ma dall’entusiasmo convinto sono passato al cupo sconforto. Il Partito Democratico che conosco non serve.

Una riflessione sofferta dopo lo psicodramma messo in scena dal Partito Democratico si impone; va detto anche che da un po’ auspicavamo la rappresentazione dell’ultima replica, salvo poi a scoprire il giorno dopo che in programma ce n’era un’altra. Non ho mai sparato al passaggio della Croce Rossa, ma dall’entusiasmo convinto sono passato al cupo sconforto. Il Partito Democratico che conosco non serve, è un soggetto politico inutile a sé, ai suoi elettori, al Paese intero. Analisi e conclusione impietosa? No, vera, perchè gli errori politici commessi qualificano la sua classe dirigente come sorda e figlia di una realtà virtuale.

Mi sono ben presenti le difficoltà della fase: scomparsa dei collanti ideologici, crollo dei muri, crisi della democrazia rappresentativa, funzione sempre più residuale dei soggetti della rappresentanza (partiti, sindacati) e quindi capisco la sperimentazione, la ricerca di nuove vie di confronto democratico. Come osservo curioso la migrazione in atto dei luoghi della decisione, il peso ponderale dei livelli apicali della dirigenza pubblica, la definizione nuova della forza delle Istituzioni, il ruolo degli eletti o quello dei nominati.

E tutto questo accade in un contesto di debolezza endemica del provincialismo della politica nostrana. Quanto più capisco tutto questo, tanto più giudico inutile il Partito Democratico. Non è vero che la sfiducia verso la politica, i partiti, gli eletti, ha generato quel fenomeno contestativo che connotiamo come antipolitica; è vero il contrario, è vero cioè che quella contestazione, se letta bene, può produrre visione, progetto, speranza, cambiamento.

I conflitti innescati da un progressivo impoverimento della società italiana, se uniti al tema dei diritti (al lavoro, all’istruzione, alla salute) costantemente sotto la scure della risposta tecnocratica priva di qualsivoglia mediazione politica, hanno aperto una prateria a chi intende produrre cambiamento. E come si intende rappresentare questo cambiamento, con la trasmissione televisiva, con la manifestazione nel chiuso di un teatro? Quanto mi rattrista la chiamata alla manifestazione fatta da Grillo, da Berlusconi o da Maroni.

Nel nostro campo il pathos, l’empatia rimangono un gene costitutivo. Senza questi ingredienti e senza il work in progress della politica che è analisi delle dinamiche sociali, lettura delle modificazioni economiche, sistemi di welfare e sanitari sostenibili, non c’è visione d’assieme, visione di futuro, speranza. Ecco una certezza: la rassegnazione, la sfiducia, non sono antipolitica ma repressione politica; la rappresentazione della pancia, del ventre molle della società non è antipolitica ma fame, bisogno di futuro.

Anche questa idea aristocratica di considerare la politica lo strumento idoneo a dipanare conflitti, a trovare soluzioni capaci di orientare il popolo, se ieri ha funzionato, oggi viene percepita come imbroglio, inciucio. Allora qual è il campo di azione del Partito Democratico, su quale terreno si deve sviluppare il suo riformismo, come rappresentare le tante ingiustizie che affiorano, attraverso cosa e chi, dare voce ai tanti ultimi delle società odierne. Durante gli anni ’80 del secolo scorso si teorizzò la società dei due terzi come risposta al neoliberismo, teoria che servì ad ammodernare il welfare europeo; oggi quelle teorie devono misurarsi con l’impoverimento delle società. E un partito che decide di non decidere non può essere utile.

E’ vero che l’Italia, il Mezzogiorno hanno stratificato un orientamento politico verso il conservatorismo di gran lunga maggioritario ed è altrettanto vero che l’area moderata e riformista nelle sue espressioni ha quasi raggiunto il 50%. Se analizziamo le soluzioni a questioni nodali, vediamo che le chiavi di lettura classiche sono insufficienti, contraddicono l’assunto e si palesano trasversali ai due campi di azione politica. Ecco, il Pd deve rappresentare un campo, quello proteso a costruire un contesto socio-economico migliore di quello dato perché questo alimenta la speranza. E non deve più enunciarlo ma essere quotidianamente e coerentemente impegnato a realizzarlo.

Il merito è un valore? Basta enunciazioni. I privilegi di casta, di status, di rendita, di posizione vanno svelati e superati? Ok mano alle leggi. La politica deve cedere sovranità alle competenze? Bene, ma si appropri della valutazione. Ieri la mia generazione combatté per il sei politico, oggi se non sosteniamo le capacità intellettive di chi non ha, bruciamo energie vitali soprattutto per il Mezzogiorno. E poi il lavoro, il consumo di ambiente, la salute, gli stili di vita. La presenza di una forza autenticamente riformatrice è vitale per l’Italia e se vogliamo il fallimento contestuale sia del progetto di Vendola che di Ingroia sono la conferma di tale stato di necessità.

Infine un soggetto politico, che non è altro che una comunità di persone su base volontaria, deve accogliere, includere, formare classi dirigenti. Per farlo, necessita di regole della convivenza, dello stare insieme, del decidere, del discutere, del rappresentare e del farsi rappresentare, deve esprimere solidarietà umana e politica. Non è complicato perché lo abbiamo già fatto per oltre sessanta anni producendo democrazia. Vogliamo velocizzare la decisione? Si può. Vogliamo consultare una platea vasta prima di decidere? Succede già. Ma se consultiamo e poi decidiamo esercitiamo direzione, se invece subiamo condizionamenti andiamo verso un altro sistema di rappresentanza ( lobbysmo?).

 

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