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Giovedì, 28 Marzo 2024
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A cura di Blog Collettivo

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La memoria di Auschwitz non basta, bisogna accettare le diversità

Il 27 gennaio 1945, qualche mese prima della fine della II guerra mondiale, le truppe sovietiche aprirono i cancelli del campo di stermino di Auschwitz. Una guerra spaventosa che provocò la morte di circa cinquanta milioni di persone in tutto il mondo. Ad essere umiliati e soppressi ad Auschwitz, ma anche negli altri campi di sterminio, non furono solo gli ebrei, i rom, i dissidenti politici, gli omosessuali, i testimoni di Geova, i malati psichici e tutte quelle categorie, che secondo l’ideologia sociale nazista non avevano diritto di vivere, ma fu umiliato, anche e soprattutto, il senso di appartenenza al genere umano.

Il 27 gennaio 1945, qualche mese prima della fine della II guerra mondiale,  le truppe sovietiche aprirono i cancelli del campo di stermino di Auschwitz. Una guerra spaventosa che provocò la morte di circa cinquanta milioni di persone  in tutto il mondo. Ad essere umiliati e soppressi   ad Auschwitz, ma anche negli altri campi di sterminio, non furono solo gli ebrei, i rom, i dissidenti politici, gli omosessuali, i testimoni di Geova, i malati psichici e tutte quelle categorie, che secondo l’ideologia sociale  nazista non avevano diritto di vivere, ma fu umiliato, anche e soprattutto, il  senso di appartenenza al genere umano.

Lo stesso governo fascista italiano, a partire dal 1938, in sintonia con quello tedesco hitleriano, promulgò le leggi razziali a difesa della “razza italiana”  che colpirono pesantemente la popolazione ebraica, con un carico asfissiante  di divieti e di prevaricazioni  su  ogni aspetto della loro vita, che furono applicate  con grande crudeltà, nell’ indifferenza di gran parte della popolazione italiana.

Oggi a distanza di quasi 70 anni  da quei fatti, se si vuole evitare di scadere nel ritualismo della celebrazione fine a se stessa,  si deve andare al di là della suggestione emotiva  e del cordoglio della  Giornata   della Memoria e cogliere l’ occasione di  un approfondimento della conoscenza storica,  per   stimolare il pensiero critico e  la riflessione  su quanto accadde,  sulle cause, sulle dinamiche politiche e  culturali, che fecero da supporto alle  persecuzioni ed allo sterminio di sei milioni di persone.

Perché quegli avvenimenti, quella ferocia non si realizzarono per  effetto di fatti imprevedibili e misteriosi, ma furono la  conseguenza di precise scelte di tipo politico, e  culturale, che superarono  l’evento bellico per la crudeltà del disegno criminale dello stermino e  che trovò terreno fertile nella  fragilità dell’uomo, nelle  sue ansie, nel suo isolamento, nella  ricerca di conformismo e di protezione, sui quali ebbe a  svilupparsi agevolmente  il germe dell’intolleranza e della xenofobia.

Quando ci chiediamo perché Hitler ha  ucciso sei milioni di Ebrei,  dei quali un  milione e mezzo di  bambini, non esitiamo a dire che era un pazzo. Lo facciamo quasi per  autodifesa,  per prendere le distanze, per rassicurarci, per  convincerci che la natura umana è diversa, incapace di esprimere quella carica devastante di malvagità e di provocare tanta sofferenza.  Anche se poi la realtà giornaliera ci smentisce continuamente.

Certamente la sua personalità si prestava molto  ad un simile giudizio,  perché non c’era un motivo razionale per ritenere pericolosa la popolazione ebraica della Germania, fatta da persone normali,  integrate da secoli, che aveva anche combattuto nell’esercito tedesco  nella grande guerra.

Nondimeno, non fu certamente il solo responsabile. Ci furono circa un milione di persone, non solo naziste, che a vario titolo di consapevolezza e di responsabilità, collaborarono alle operazioni di individuazione, rastrellamento, deportazione ed uccisione degli ebrei. Non credo che si possa  ragionevolmente pensare che fossero tutti pazzi.

Tutto fu organizzato per fare in modo che ognuno di loro non si potesse sentire   responsabile, di potersi scagionare in quanto piccolo, insignificante strumento di un organismo molto più complesso.  Lo stesso  Eichmann disse che non aveva fatto male ad un solo ebreo: si era solo limitato a firmare  fogli con i quali disponeva i rastrellamenti e le deportazioni, che altri, e non lui, portarono a compimento.

Numerose ricerche sulla popolazione tedesca dell’epoca accertarono, che l’antisemitismo era molto più diffuso nelle zone in cui  non c’era  alcuna conoscenza diretta degli  ebrei. Per mero calcolo  politico erano stati infatti  elevati al rango di capro espiatorio   di tutte  le difficoltà, insicurezze e paure generate dall’elevato grado di competitività che si era affermata con la modernità e  che aveva reso l’individuo  più indipendente, più critico, ma al tempo  stesso più solo, più fragile, più impaurito.

Era l’effetto della struttura della società moderna, che lo costringeva a mettersi  in gioco, a competere con gli altri, se non voleva  essere emarginato, perché il suo destino,  la sua vita dipendevano  da quanto era  in grado di costruire con le proprie   mani.

Ma questa competizione  generava e genera  ansia e  angoscia,  legate alla libertà e alla prospettiva di dover  fare affidamento sulle proprie forze. Allora se una voce autorevole, amplificata convenientemente dai mezzi di informazione, ti ripete ossessivamente, come fece Hitler, ma anche altri in Italia,  che la colpa dei tuoi   problemi sono gli ebrei, il diverso, l’estraneo,  che è necessario eliminare  e ti dice di non  preoccuparti perché “ci penso io”, ti risolvo io i tuoi problemi,  però devi  darmi carta bianca per l’esercizio del potere, può essere liberatorio e conveniente dargli credito,   perché   può rappresentare la scorciatoia  facile per liberarsi dalla tensione, per  alleggerirsi psicologicamente dal disagio e dall’ansia della competizione.

Anche se hai  la  consapevolezza, che dei tuoi problemi, delle tue frustrazioni, delle tue  insicurezze non può essere responsabile l’ebreo, (ovvero il marocchino, l’albanese l’extracomunitario).

Diventa naturale a quel punto  dividere la gente fra noi e loro. Noi, i nostri vicini di casa, il nostro quartiere, la nostra città, la nostra nazione: tutti con la stessa identità di appartenenza,  gli stessi stili di vita, le stesse abitudini, gli stessi pensieri.  Gli altri sono i diversi, quelli verso i quali si deve nutrire diffidenza e che fanno istintivamente paura. Sono i nemici, perché possono mettere in crisi e  sconvolgere la nostra  identità di appartenenza.

E’ sufficiente osservare i nostri giovani, ma anche gli ultras, le stesse scarpe, le stesse magliette,  gli stessi jeans, gli stessi occhiali, le stesse abitudini e modi di vivere; sono tutti codici di riconoscimento, di identità, che li fanno sentire sicuri dentro il loro piccolo gruppo, che in qualche modo costituisce  la loro corazza, ma che può essere anche una barriera,  nei confronti del mondo.

E su questi meccanismi che si è sviluppato e si può sviluppare il germe dell’intolleranza, ma anche quelli del disimpegno e della cieca obbedienza alle regole dell’autorità e dell’appartenenza. Allora il tormentone della memoria per evitare che possano accadere in futuro fatti del genere, non credo che abbia una qualche validità o efficacia. Non funziona. Perché se fosse vero  molte cose non accadrebbero nel presente e che invece si ripresentano ogni giorno nella loro valenza di malvagità e di sofferenza.

Da qui si dovrebbe partire per  intraprendere un percorso di cambiamento culturale, per imparare a vivere senza sentire la necessità di dover essere uguale agli altri, per  imparare a sentirsi più forti, affrontando il mondo con curiosità, accettando il diverso come occasione di confronto e arricchimento, rifiutando di inseguire  illusioni e scorciatoie pericolose. Ma vivere così purtroppo non  è facile.

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