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Venerdì, 29 Marzo 2024
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A cura di Blog Collettivo

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La scuola italiana tra passato, presente e futuro

Una riflessione di Mario Carolla, già dirigente scolastico, in modo particolare sulla scuola secondaria di secondo grado e sugli interventi di riforma parziali attuati negli ultimi 20 anni dai veri governi

La scuola riapre a settembre, manca poco più di un mese e la preoccupazione di tutti domina per ciò che potrà ancora minarla. Senza entrare nel merito dei ritardi, in parte giustificati da ciò che abbiamo vissuto in questa prima metà dell'anno e che stiamo ancora vivendo, e in parte ingiustificati per un ministero che dovrebbe avere un profilo di massimo rilievo, ma che è stato affidato dal governo in carica, ahimè, ad una giovane ministra dalle proposte altalenanti, che si è circondata di pletoriche e inconcludenti commissioni di esperti, desidero qui toccare quello che, a mio avviso, è il nocciolo della “questione Scuola italiana”.

La Scuola italiana, non da oggi, versa in una profonda crisi la cui punta dell' iceberg è simboleggiata dalla sua insufficiente produttività. Per far fronte a tale complesso male molti governi e responsabili del ministero si sono arrovellati in tentativi di riforma, ma appena qualcuno di essi tentava una “costruzione” diversa del sistema, immediatamente, chi seguiva la buttava giù.  Non c'è metafora più azzeccata per rappresentare tale situazione, che si trascina da anni, che quella che fa riferimento alla tela di Penelope. A tal proposito mi sembra utile fare un rapido accenno ai tentativi di riforma che si sono susseguiti nel millennio che stiamo vivendo trascurando ciò che è accaduto nel secondo millennio per non rinvangare le tante occasioni perdute dopo il superamento della scuola di stampo fascisto-gentiliana.

Negli anni 2000 il primo tentativo di riforma messo in campo fu del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, sotto il governo D'Alema II, con la legge 10 febbraio 2000, n. 30, contenente spunti alquanto interessanti, ma che fu subito abrogata dalla ministra Letizia Moratti, sotto il governo Berlusconi II, che fece varare la legge 28 marzo 2003, n° 53, con lo slogan delle tre “i”, inglese, informatica e impresa, che vide la forte opposizione dei sindacati della scuola con in testa la Cgil Scuola. Con il governo Prodi II del 2006, il ministro competente Giuseppe Fioroni affossa la legge Moratti estendendo l'obbligo scolastico a 10 anni, riformando l'esame di Stato, introducendo con il decreto n. 80 del 3 ottobre 2007 nuove modalità sul cosiddetto “debito formativo” da restituire a settembre insieme ad altre misure di settore; i sindacati sono apparsi a tali misure parzialmente soddisfatti, soprattutto, per il freno posti ad alcuni punti indigesti della legge Moratti.

Con la prematura caduta del governo Prodi II ritorna in sella il governo Berlusconi IV dal 2008 al 2011, che porta al ministero Maria Stella Gelmini, la quale invece di dedicarsi ad approfondire i segreti della sartoria si mette a tagliare drasticamente il numero degli insegnanti e introducendo altre inconcludenti piccole innovazioni che suscitano l'ira di tutti i sindacati della Scuola. Il 16 novembre 2011 arriva il breve governo Monti con il compito di salvare il Paese dal baratro, ma il ministro della scuola designato Francesco Profumo cerca in ogni modo di mandare la Scuola nel baratro, non ci riesce solo per la succitata brevità del governo che lo ha espresso, con la balzana idea di aumentare l'orario dei professori da 18 a 24 lasciando loro lo stesso stipendio.

Dei ministeri che si sono susseguiti nella XVII e nella XVIII legislatura sotto i governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e l'attuale Conte II preferisco non parlare perché il loro operato è storia recente e perché con i loro interventi parziali hanno, a mio avviso, avvicinato il sistema Scuola verso l'entropia. Non posso però non ricordare la “buona scuola” di Renzi che di buono aveva solo lo stimolo a far ridere tutti come il suo carattere giulivo gli dettava imperiosamente.

Oggi l'insufficiente produttività della Scuola italiana è giunta a livelli ormai insostenibili perché colloca il nostro bel Paese tra gli ultimi in Europa in quanto a livelli d'istruzione e al conseguente possesso del passaporto per entrare nel mondo del lavoro. Bastano i dati che seguono per testimoniare ciò. L'Istat nel rapporto annuale 2019 ha evidenziato alcuni dati impressionanti già prima dei prevedibili effetti ancor più negativi che sicuramente si avranno a causa della pandemia. Il più importante indicatore del livello d'istruzione di uno Stato, che è allo stesso tempo anche il requisito indispensabile per l'ingresso nel mondo del lavoro, è considerato dall'ISTAT il possesso del titolo di studio fornito da una scuola secondaria di II grado. L'Italia con il 62,2% di diplomati nella fascia d'età che va da 25 a 64 anni si trova molto al di sotto della media europea che è di 78,7%. Anche il livello dei laureati, che è di 19,6% contro il 33,2% della media europea, e il livello di occupazione degli stessi che ci vede precedere solo la Grecia con un 81,4% contro un 86,3% della media europea, confermano la bassa produttività del sistema scolastico e formativo italiano.

Molti in Italia, competenti del settore o semplicemente sedicenti competenti, si sono arrovellati da anni, continuando a farlo nell'epoca del coronavirus, a ricercare i motivi della debacle della Scuola italiana. Mi soffermerò solo su quel segmento formativo di base, determinante per i futuri sviluppi della persona, che ritengo sia il segmento che accompagna gli italiani fino ai 18 anni. Tra i motivi della debacle vengono elencati: aspetti organizzativi, personale docente da svecchiare, preparazione dei docenti spesso non all'altezza anche sul piano metodologico e didattico, insufficiente digitalizzazione e carenza in generale delle strutture, programmi obsoleti, affollamento dei gruppi classe, insufficiente apertura del sistema formale alle opportunità formative informali e non formali esterne alla singola scuola (autoreferenzialità), esorbitante ricorso ai supplenti con grave danno alla continuità didattica, scarse strategie per fronteggiare la dilagante dispersione scolastica, scarso riconoscimento anche economico del ruolo dei docente, insufficiente riconoscimento del merito non solo per i discenti ma anche per docenti e dirigenti, ecc.

Devo subito aggiungere che su quasi tutti i motivi sopraelencati sono pienamente d'accordo. Essi vanno affrontati con decisione e urgenza senza perdersi in sterili confronti e eterne discussioni iniziando a provvedere da subito alla loro rimozione se si desidera la sopravvivenza di tale fondamentale Istituzione. É il minimo che un Ministero della Pubblica Istruzione (ho sempre avversato la denominazione di Miur) che si rispetti possa fare quando il sistema dà risultati così negativi in questi tempi bui. C'è però un elemento che tutti i massimi cervelli della scuola italiana e del mondo della cultura non considerano o che addirittura non ritengono opportuno considerare: qualsiasi innovazione su tale segmento fondamentale della scuola italiana, che a mio giudizio è al punto di non ritorno, non è sufficiente perché nella modernità che si prospetta con tutte le sue difficoltà epocali occorre agire con radicale decisione sull'intero impianto.

Diamo un rapido sguardo all'esistente. I cicli d'istruzione della scuola italiana sono tre: il primo, articolato in scuola primaria e scuola secondaria di I grado; il secondo, articolato in scuola secondaria di II grado e istruzione e formazione professionale; il terzo d'istruzione superiore offerto dalle Università e dalle Istituzioni non universitarie. Per ovvie ragioni limiterò questo intervento al II grado del ciclo d'istruzione secondario dove domina la frammentazione ancorché giustificata da finalità e obiettivi diversi e farò qualche conseguenziale cenno al ciclo d'istruzione superiore. I grandi filoni del secondo ciclo sono tre: i licei, gli istituti tecnici e gli istituti professionali. Ma all'interno di tali filoni dominano le tipologie: sono sei le tipologie di licei (classico, scientifico, linguistico, artistico, musicale e coreutico, delle scienze umane). Per gli istituti tecnici nei due settori, quello economico e quello tecnologico, le tipologie sono rispettivamente due nel primo e nove nel secondo. Per gli istituti professionali le cose non sono meno complicate perché nei due settori previsti, quello dei servizi e quello dell'industria e artigianato, le tipologie sono rispettivamente quattro e due.

In tutte le tipologie d'indirizzo dei vari settori, in totale ben ventitré, la durata degli studi è di cinque anni suddivisi in due bienni e un anno finale che si conclude con un esame di Stato. L'obbligo va fino al primo biennio della scuola secondaria di II grado. Ventitré indirizzi (quelli ufficiali senza contare le varianti che l'autonomia scolastica consente) sono decisamente troppi per uno Stato che ha bisogno di costruire una sana coscienza identitaria dei suoi cittadini a partire dal bisogno diffuso di avviare un concreto abbattimento delle diseguaglianze. Tale operazione non può non partire da una istruzione unitaria per le giovani generazioni.

Nel nostro Paese, ancor più che negli altri Paesi dell'ancora opulento mondo occidentale, è estremamente difficile compiere salti nella scala sociale. Chi nasce in famiglie afflitte dalla povertà assoluta molto spesso non riesce a compiere percorsi formativi completi perché precipita nel limbo della dispersione scolastica, prima ancora di arrivare al II grado della scuola secondaria. Le difficoltà di proseguire gli studi con serenità e profitto capita spesso anche a che nasce in famiglie che versano in povertà relativa. Ma non sono soltanto le condizioni economiche delle famiglie a determinare tali situazioni; vi sono anche condizioni sociali quali l'ignoranza dilagante, la povertà dei territori, le loro differenze culturali, le scarse prospettive occupazionali che essi offrono, le carenze d'istruzione accumulatesi nel passato scolastico di ciascun discente, le differenze di genere.

Vari sono dunque i rivoli che sfociano nella dispersione scolastica, nella sottocultura e spesso nella criminalità che colpiscono le nostre generazioni prima ancora che esse raggiungano la scuola superiore. Il I ciclo d'istruzione nella sua interezza e, in particolare, il I grado della scuola secondaria, la scuola media, dovrebbero porsi con maggiore determinazione e con chiari e mirati obbiettivi questo immane problema che ostacola ogni processo di uguaglianza tra le persone. L'abbattimento delle diseguaglianze, che è un problema di tutti e non di pochi illuminati parte da lì e tanti sono gli interventi che andrebbero messi in campo. Lo Stato dovrebbe porsi il problema di attuare compiutamente, finalmente, l'uguaglianza sostanziale indicata al II comma dell'articolo 3 della nostra Costituzione. Da questi pochi cenni sulla Scuola italiana emerge una cosa ripetuta fino alla nausea da molti osservatori ma lasciata a mera costatazione: la Scuola italiana è la vera priorità del nostro Paese.

Lo scopo di questo mio intervento è però un altro, cioè, è quello di porre l'attenzione sulla scuola secondaria di II grado. So che il terreno è quanto mai scivoloso e complesso, ma sono convinto che interventi di riforma parziali non bastano e occorre invece rivedere nel profondo la finalità dell'intero segmento scolastico rendendola comune a tutte le tipologie. Da un'indagine fatta da Eurostat, riferentesi al 2018, su giovani della fascia d'età 18-24 che hanno raggiunto la licenza media e che non hanno continuato gli studi il risultato che emerge in tutta la sua drammaticità e si aggiunge alla drammaticità precedente di chi ha abbandonato la scuola anche prima, è che in Europa con il 14,5% degli abbandoni precoci l'Italia è seconda solo alla Spagna con il suo 17,9%.

Avviare l'abbattimento delle disuguaglianze, delle disparità sociali e insieme degli altri mali evidenziati sopra nella considerazione che è in atto nel nostro Paese un incontrovertibile aumento della speranza di vita delle persone, 85,3 anni per le donne e 81 anni per gli uomini (dati dell'ultimo report dell'Istat sugli indicatori demografici 2019), e un tangibile ritardo occupazionale dopo il conseguimento dei diplomi e anche delle lauree, fanno immediatamente emergere l'insufficienza delle “Linee guida per la ripresa della scuola a settembre”, sollecitate dal MIUR dall'esigenza di fronteggiare l'epidemia in corso. Seppure tali linee guida presentino apprezzabili proposte, ancorché problematicamente attuabili per tante ragioni anche di ordine economico, che sembrano andare nella direzione giusta, sono comunque lontane da ciò di cui avrebbe bisogno la nostra Scuola.

Tra le proposte positive, ma ancora in discussione, emergono le seguenti: “riconfigurare il gruppo classe in più gruppi di apprendimento”, prevedere attività di “gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso”, intaccare il fordismo disciplinare mettendo insieme “le discipline in aree e ambiti”, “garantire, a ciascun alunno, la medesima offerta formativa, ferma restando l’opportunità di adottare soluzioni organizzative differenti, per realizzare attività educative o formative parallele o alternative alla didattica tradizionale”. Ma perché tutto ciò sia coerente con l'intero impianto della scuola secondaria di II grado (ricordo i 23 indirizzi diversi dei tre grandi filoni nei quali si articola) e sia attuabile, evitando così la minacciosa entropia del sistema che è dietro l'angolo, a mio avviso come ho già anticipato, occorre ben altro.

Conscio delle difficoltà attuative e delle critiche sul piano delle finalità e degli ordinamenti didattico-organizzativi che mi pioveranno addosso come grandine distruttiva, ritengo che sia necessario avviare un assetto unitario dell'intero segmento, con ampie aree disciplinari opzionali, lasciando alla formazione universitaria e a quella non universitaria, anch'esse da riformare sapientemente, ciò che mancherebbe ad un'efficace formazione professionale dei giovani diciottenni. Nel tempo che viviamo in cui le giovani generazioni sono soggetti alle tante sollecitazioni provenienti dalle miriadi di agenzie “educative”, o sedicenti “educative”, presenti nel mondo globalizzato, il possesso e la condivisione dei valori umani, partendo dalla conoscenza non solo formale della storia dell'Uomo, e l'identità di essere cittadino consapevole devono essere fruibili da tutti e posseduti da tutti i soggetti in formazione fino a 18 anni.

La mia utopia è la scuola secondaria di II grado unificata e obbligatoria per tutti. Nella legge 31 dicembre 1962, n° 1859 (Istituzione e ordinamento della scuola incontrovertibile media statale), che ha introdotto la scuola media unificata, al 2° comma dell'articolo 1, si legge testualmente: “La scuola media concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”. Qualcosa di simile si dovrebbe fare per la scuola secondaria di II grado. È  un'utopia, ma dalle utopie si parte per migliorare il mondo.

Mario Carolla, già dirigente scolastico

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