Licenziamenti, una ricetta avariata
Leggendo la lettera del governo alla Ue torna in mente quello slogan, di cui censuro la parolaccia, molto in voga nei cortei sindacali di qualche tempo fa: "Come mai, come mai sempre in c. agli operai?". Dopo anni in cui abbiamo letto pensosi articoli sulla irrilevanza della classe operaia e del lavoro dipendente, la lettera di Berlusconi e Bossi riporta al centro del dibattito politico il tema del lavoro facendone il capro espiatorio della crisi italiana. Oggi il licenziamento per motivi economici è possibile solo per i licenziamenti collettivi derivanti ad esempio dalla chiusura di un'azienda. Il giudice del lavoro può, tuttavia, intervenire anche nel caso di licenziamenti individuali contestando che l'allontanamento del lavoratore sia avvenuto sulla base di motivi economici e non, ad esempio, per rappresaglia anti-sindacale. Con la nuova normativa che il governo si prepara a presentare al parlamento invece si restituisce all'imprenditore la totale libertà di licenziamento, dietro indennizzo, senza che il giudice possa contestare la natura economica della decisione.
Leggendo la lettera del governo alla Ue torna in mente quello slogan, di cui censuro la parolaccia, molto in voga nei cortei sindacali di qualche tempo fa: "Come mai, come mai sempre in c. agli operai?". Dopo anni in cui abbiamo letto pensosi articoli sulla irrilevanza della classe operaia e del lavoro dipendente, la lettera di Berlusconi e Bossi riporta al centro del dibattito politico il tema del lavoro facendone il capro espiatorio della crisi italiana. Oggi il licenziamento per motivi economici è possibile solo per i licenziamenti collettivi derivanti ad esempio dalla chiusura di un'azienda. Il giudice del lavoro può, tuttavia, intervenire anche nel caso di licenziamenti individuali contestando che l'allontanamento del lavoratore sia avvenuto sulla base di motivi economici e non, ad esempio, per rappresaglia anti-sindacale. Con la nuova normativa che il governo si prepara a presentare al parlamento invece si restituisce all'imprenditore la totale libertà di licenziamento, dietro indennizzo, senza che il giudice possa contestare la natura economica della decisione.
Siamo in pratica di fronte al "tana liberi tutti" che lascia i lavoratori in balia degli imprenditori che possono ricorrere allo strumento del licenziamento quando gli pare e senza giustificato motivo. E' una misura liberticida che capovolge le tutele del mercato del lavoro, introduce una logica darwiniana e si base su presupposti economici fallaci e su una ideologia liberista fallimentare. Leggo che ieri l'on. Antonio Leone, berlusconiano di ferro, classifica come antiriformiste le proteste dell'opposizione e del sindacato. Leggo, purtroppo, che anche alcuni esponenti dell'opposizione, è il caso del sindaco Renzi, che oggi raduna i suoi seguaci a Firenze, trovano accettabili le richieste della Bce e quindi la lettera del governo. Vivono in un'altra epoca. Siamo, infatti, di fronte di fronte non solo a una misura ingiusta ma anche a un vero inganno ideologico.
Ha scritto bene in un suo recente libro Robert Reich, economista e ministro con Clinton, che queste teorie sono la riproposizione di vecchie ricette economiche. "Gli economisti classici, scrive Reich, avevano ritenuto i mercati capaci di autocorreggersi. Sostenevano che alla fine avrebbe prevalso la piena occupazione. Ogni ondata di disoccupazione avrebbe fatto scendere i salari finché i datori di lavoro non avessero trovato di nuovo redditizio assumere dei lavoratori. Secondo questa visione, la disoccupazione persistente era il risultato dell'ostinata resistenza dei lavoratori, che insistevano a conservare vecchi livelli di salario... L'unica risposta era far loro sperimentare la mancanza di lavoro così a lungo da convincerli ad accettare salari più bassi". Non è per caso che si sia tornato a proporre in Italia il ritorno alle gabbie salariali. Questa cultura classica che ha entusiasmato vecchi e nuovi liberisti si combina con l'idea dello Stato minimo e con lo smontaggio del Welfare e con l'apologia dell'abbassamento delle tasse ai più ricchi, qui in Italia con la rinuncia alla tassazione patrimoniale, nella convinzione che in questo modo gli "spiriti animali" del capitalismo possono sprigionarsi a beneficio di tutti.
Si tratta, con tutta evidenza, di una sequela di inganni. La crisi economica mondiale, che è frutto di tremende diseguaglianze sociali e del fallimento della finanza internazionale e della prevalenza dell'economia finanziaria sull'economia reale, dimostra invece che le società occidentali rischiano il collasso per la caduta della capacità di acquisto di gran parte della popolazione impoverita, lavoratori e ceto medio, e che il surplus che incassano i ricchi non finisce nell'investimento e nel benessere sociale ma alimenta il circuito finanziario e le sue fasulle illusioni. La via d'uscita sta invece in politiche economiche di crescita che facciano centro sul lavoro e sull'economia reale, e manifatturiera, e sulla possibilità di espansione dei mercati interni. Bisogna tornare a produrre e a consumare e per far questo abbiamo bisogno di imprese sane, di più lavoro e di acquirenti in grado di spendere. Qui torna il ruolo dello Stato secondo il modello keynesiano che ha fatto conoscere al mondo occidentale decenni di prosperità.
Invece in Italia si vuole procedere, senza peraltro neppure avere il consenso degli imprenditori più avvertiti, verso un modello economico e sociale che perpetua le diseguaglianze, punisce il lavoro dipendente e impoverisce anche il ceto medio, senza aprire varchi ai giovani e ai precari e mortificando il ruolo dello Stato che viene ridotto alla sua dimensione burocratica e parassitaria. In questo modo si approfondiscono non sole le diseguaglianze fra i cittadini ma anche quelle fra Nord e Sud condannando il Sud alla definitiva emarginazione.
Le ricette reaganiane e thatcheriane, che sono all'origine della attuale crisi mondiale, vengono così riproposte nel nostro paese pur di garantire a un ristretto numero di privilegiati, di ricchi e di redditi parassitari di continuare a dominare la società. Del resto che la libertà di licenziamento sia una mossa propagandistica priva di benefici e totalmente antiriformistica è dimostrato anche dal fatto che in questi anni, in cui il precariato si è dilatato, abbiamo assistito non alla rinascita dell'economia ma alla sua perdita di solidità. Torna così centrale il tema della difesa del lavoro, della necessità della riduzione del peso fiscale su di esso, anche a vantaggio delle aziende, della necessità di strumenti di protezione sociale e di soluzioni che aiutino l'economia manifatturiera a trovare nuove occasioni.
L'Italia per uscire dalla crisi non ha bisogno di "cattivo lavoro", mal pagato e mal protetto, ma di "buon lavoro" offerto da imprese sane a cui vanno garantiti crediti e possibilità espansive rivolto a un mondo del lavoro che deve essere riqualificato anche attraverso il miglioramento della scuola. E' qui lo scontro. E' qui che la sinistra deve trovare la sua voglia di battersi senza temere di passare per antiquata perché difende i sindacati e i lavoratori. Il riformismo di cui parla a sproposito l'on. Leone è invece la merce avariata del vecchio liberismo, quello che sta uccidendo l'economia mondiale.