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A cura di Blog Collettivo

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L'isolamento del porto di Brindisi e il "risveglio" di chi lo ha affossato

Il mondo dei trasporti è in forte fermento e cerca di fronteggiare questi anni di crisi economica con nuove strategie ordinando sempre navi più grandi e costituendo nuove alleanze operative come la P3 Network costituita tra Maersk, Msc, Cma Cgm, i tre principali vettori del trasporto container di linea che metteranno in campo 255 navi per una capacità di 2,6 milioni di container.

Il mondo dei trasporti è in forte fermento e cerca di fronteggiare questi anni di crisi economica con nuove strategie ordinando sempre navi più grandi e costituendo nuove alleanze operative come la P3 Network costituita tra Maersk, Msc, Cma Cgm, i tre principali vettori del trasporto container di linea che metteranno in campo 255 navi per una capacità di 2,6 milioni di container, portando inevitabilmente a una concentrazione del mercato nelle mani di quattro o cinque global carrier.

Se il mondo dello shipping disegna velocemente nuovi scenari cercando porti sempre più competitivi in termini di infrastrutture e servizi, il comparto marittimo italiano, per non diventare marginale sullo scenario internazionale, deve risolvere rapidamente tre principali problemi: la carenza di programmazione per la realizzazione delle infrastrutture portuali e retro portuali; la mancanza di una regia nazionale per i porti ed infine il riordino della legge portuale 84/1994. Questa riforma, molto criticata sia dal versante delle autorità portuali che dagli operatori, così come si prospetta è inutile ed arriva ormai in ritardo rispetto all’evoluzione del sistema globale dello shipping.

Nella bozza di riforma, fra le carenze principali, manca l’aspetto fondamentale dell'autonomia finanziaria dei porti, che consentirebbe alle autorità portuali di disporre di risorse proprie da utilizzare per la realizzazione di infrastrutture. Come è facile capire, questa grave carenza si ripercuote sullo sviluppo della portualità italiana e del suo ruolo rispetto all’evolversi dello scenario dei traffici internazionali. Per comprendere il livello di arretratezza dei porti italiani, basta guardare i nostri terminal portuali che non sono attrezzati né per accogliere le nuove maxi navi, né tanto meno per far defluire le migliaia di container che esse sbarcano.

Di fronte a questa situazione generale di crisi della portualità italiana, ad eccezione per qualche isolata realtà, è opinione condivisa da tutti gli addetti ai lavori che, a fronte di una inevitabile selezione naturale dei porti svolta dal mercato (che tende ad usare i porti stranieri), il nostro Paese per recuperare competitività necessita di non più di 6-7 porti di scala intercontinentale, su cui concentrare gli investimenti nazionali ed europei per attrezzarli adeguatamente e ridurre le autorità portuali a 10-11 opportunamente riformate, contro le 24 di oggi che con la loro burocrazia generano inefficienza e maggiori costi per il mondo del trasporto italiano.

Al di la delle inevitabili ingerenze politiche, che hanno ingessato ed affossato il sistema portuale italiano (ben un terzo delle Autorità sono ad oggi commissariate, un vero e proprio amaro bilancio per la legge 84/94), il legislatore italiano chiamato a riformare il sistema portuale e scegliere i porti di interesse strategico per l’Italia e di conseguenza per l’Europa, dovrebbe seguire una strada di coerenza con le scelte delle reti TEN-T della UE, ma il condizionale è d’obbligo. Difatti in base a recenti stime della Commissione europea, si prevede che, entro il 2020 saranno complessivamente necessari investimenti nelle reti Ten-T per circa 500 miliardi di euro, di cui quasi 250 per eliminare i colli di bottiglia e completare i collegamenti mancanti della rete di trasporto principale, cioè quella che garantirà all’Europa lo sviluppo economico e la competitività rispetto agli altri continenti.

I porti e i nodi logistici prioritari per lo sviluppo continentale saranno quelli inclusi nel cosiddetto core network, la rete dei porti principali della UE da realizzare necessariamente entro il 2030. La Commissione europea, già dal 2011 con l’accordo col Governo italiane tramite l’allora Ministro delle Infrastrutture Matteoli, famoso a Brindisi e nel resto del Paese per aver nominato il primo presidente straniero di un ente pubblico italiano, confermava l’inserimento di 12 porti italiani nella lista dei nodi strategici della core network che sono Genova, La Spezia, Napoli, Gioia Tauro, Palermo, Taranto, Bari, Ancona, Ravenna, Venezia, Trieste, Livorno. Ma se è questa la strategia di sviluppo della UE, essa non vale completamente per l’Italia che si regola purtroppo in tutt’altra maniera.

Infatti, i quasi 5 miliardi di euro di investimenti pubblici previsti dal Governo sui porti italiani, non vanno nella direzione indicata da Bruxelles, confermando così la carenza di programmazione che contraddistingue il nostro Paese. Gran parte dei fondi stanziati per le banchine, sono indirizzati a porti che hanno volumi di traffico molto inferiori a quelli storici di Genova, La Spezia e Livorno, da cui passa più del 60% del traffico nazionale non di transhipment. Alcuni investimenti sono stati programmati per porti non inseriti nella rete europea Ten-T, risulta che nell'11° allegato infrastrutture del Def 2013 il documento di programmazione economico e finanziario, sono destinati 482 milioni al porto di Civitavecchia (uno di quelli non inseriti nel core network del Ten-T); 240 a Napoli; 317 a Trieste; 1,06 miliardi a Venezia; 383 a Ravenna e 220 a Taranto (porto di trashipment che ha segnato un crollo dei traffici nel 2012, superiore al 50%).

Attraverso accordi di programma o altri tipi di intese, Ancona ha ottenuto l'assegnazione di 226 milioni; Gioia Tauro e Cagliari (entrambi scali di transhipment in crescita, dopo un periodo di crisi) hanno a disposizione, rispettivamente 460 milioni (dei quali 280 a favore di Rfi, per la rete ferroviaria di collegamento, e circa 80 per incentivi ad aziende di logistica). Le risorse provenienti da leggi varie assegnano invece a Savona (fuori dal Ten-T) 300 milioni (per la costruzione della piattaforma container di Vado) e a Genova 114 milioni (35 dei quali per accesso portuale e 75 per il ribaltamento a mare di Fincantieri). Inoltre, altri fondi sono previsti per Piombino (450 milioni, dei quali 140 per accessibilità ferroviaria e stradale e, anche qui si tratta di un porto non inserito nella Ten-T) e per Salerno (fuori dal Ten-T, per il quale sono preventivati 208 milioni).

Infine 145 milioni sono destinati ad Augusta; 235 a Palermo e 385 a Ravenna. Totale 4.909 milioni di euro. Dal quadro dei fondi dunque, emergerebbe che scali storici quali Genova, La Spezia e Livorno, siano considerati poco strategici a livello di programmazione, mentre si punterebbe a potenziare, con stanziamenti molto più cospicui scali in Adriatico, Alto Tirreno e in Italia centrale che hanno volumi di traffici minori. In realtà, il problema è proprio la mancanza di programmazione nazionale, manca una visione strategica del sistema dei trasporti e come esso si inserisce in un concetto esteso di mobilità. Infatti il sistema dei trasporti va visto nella sua globalità, il concetto che la mobilità sia un tema di politica economica e non può più essere affrontato e dibattuto come semplice settore delle infrastrutture, è una consapevolezza ormai diffuso fra gli esperti del settore e soprattutto questo concetto è fatto proprio dalla programmazione comunitaria, che si materializza nello sviluppo delle reti TEN-T.

Costituite queste ultime da corridoi multimodali, i cui nodi sono composti da strutture nei quali si attua l’intermodalità e la logistica attraverso l’utilizzo di porti, retro porti, interporti, aeroporti, in una visione di integrazione intermodale. Il tema ovviamente, si interfaccia con quello dello sviluppo economico del Paese che è generato dalle politiche territoriali, dalle imprese, dai servizi ecc.. Nel settore delle Infrastrutture sappiamo che i porti e gli aeroporti sono le «porte del mondo», che consentono di migliorare ed accelerare i processi di internazionalizzazione, indispensabili in una fase economica in cui la globalizzazione degli scambi non essendo sostenuta da regole certe, è affidata alla capacità dei territori di attrarre flussi ed investitori, operando soprattutto sui tempi delle scelte e sulle decisioni, che consentono di governare i conflitti tra flussi e luoghi, in cui gli stessi luoghi si combattono tra loro ogni giorno per conquistare flussi di traffico.

Sulla base di questi principi e riflessioni, occorre avviare una strategia “locale” di sviluppo del territorio, funzionale allo scenario “globale”, scegliendo il ruolo che il territorio ha in mente di giocare sul proscenio internazionale più consono ai propri asset infrastrutturali. Si tratta di una attività complessa che mette insieme gli strumenti di programmazione locale (Pug, piani regolatori portuali, piano dei trasporti regionale, ed altro) del territorio ed i piani nazionali ed europei. Questa metodologia di lavoro si applica ai porti. Infatti sviluppare un porto è una classica azione di sviluppo territoriale. Attraverso il proprio porto il territorio e quindi le aziende, con i loro prodotti e i loro servizi, si proiettano verso il mondo.

Il nostro porto in questo momento sta attraversando una crisi senza precedenti, che non è solo di carattere economico legata alla carenza di traffici, ma soprattutto di identità e di prospettiva. Dal mio punto di vista il porto appare “strategicamente fermo ed isolato” fuori dalla programmazione nazionale e fuori dal core network della rete di eccellenza dei porti europei. A mio avviso ogni politica di sviluppo della portualità brindisina strettamente connessa alla sua retroportualità, va impostata recuperando “l’isolamento strategico “ in cui anni ed anni di politiche portuali errate, supportate da progettualità inconcludente e fuori dagli obiettivi seppur confusi della portualità italiana e senza riferimento alle politiche dei trasporti della UE, hanno relegato il porto di Brindisi in una posizione marginale perfino a livello regionale.

E’ un porto che perde finanziamenti piuttosto che acquisirli, è un porto che si ritrova fuori dai porti strategici del core network della Ue, mentre sono presenti i corregionali Taranto e Bari e colpisce che in queste ore ex amministratori che hanno ricoperto ruoli primari nel governo della Città, si accorgono solo oggi che il porto è “fuori dall’Europa” ma questo è già avvenuto dal 2011 mentre loro governavano Brindisi, con un Governo a Roma del loro stesso colore politico. Il nostro porto, per queste ed altre “disattenzioni” è un porto che negli anni ha perso peso politico, tanto da non entrare nemmeno nella confusa programmazione nazionale 2013 per racimolare qualche finanziamento. Se da un lato la crisi di un porto si rileva visivamente dalla carenza di navi e linee commerciali che toccano le banchine, quello che preoccupa di più e la mancanza di prospettive: non rientrare fra i porti strategici su cui l’Europa fonda il proprio sviluppo futuro ed essere fuori dalla lista dei porti finanziati dallo Stato, vuol dire non essere più funzionali alle politiche dei trasporti nazionale ed ovviamente europee e rischiare per questa via, di perdere in prospettiva l’Autorità portuale.

Non beneficiare dei finanziamenti europei del programma TEN-T vuol dire non potersi presentare sul mercato internazionali con le infrastrutture intermodali e logistiche necessarie per offrire i servizi che lo shipping internazionali richiede, in ultima analisi “l’isolamento strategico” non consente di programmare una vera e propria crescita economica del porto e del suo territorio. La vera urgenza è avviare da subito una politica di rientro del porto di Brindisi e della sua retroportualità nell’ambito della programmazione europea. Questo è lo sforzo che il territorio con le sue istituzioni deve fare. Ma per questo occorrono risorse umane capaci e progetti adeguati, programmazione di alto livello ed una intesa forte fra gli enti locali in grado navigare tutti verso la stessa direzione e di incidere nelle sedi opportune, così come altre città portuali stanno facendo per rientrare nella programmazione europea.

E’ inutile in queste condizioni di debolezza pensare, che per lo sviluppo del porto basti partecipare all’associazione regionale dei porti pugliesi App, con un improbabile ruolo sinergico, di cui si stenta a capirne la natura, quando due su tre di questi porti sono comodamente e felicemente inseriti fra i porti della core network della Ue con ruoli precisi ed il terzo, Brindisi appunto è fuori da questo network di eccellenza. La stessa Regione ha il dovere di spingere sui tavoli nazionali per inserire il porto brindisino nei porti del network della Ue, per rinforzare tutto il sistema portuale pugliese e saldarlo concretamente alla rete europea primaria dei trasporti, per realizzare effettivamente la piattaforma logistica di livello mediterraneo connessa all’Europa come auspicato dalla regione Puglia ed utilizzando App, adeguatamente organizzata, come soggetto di coordinamento effettivo ed autorevole delle politiche portuali regionali.

In conclusione ogni forma di programmazione, compreso l’ipotetico nuovo piano regolatore portuale, invocato dai più come la medicina per tutti i mali, non potrà funzionare se non è la conseguenza di una chiara strategia di mobilità complessiva dell’intero territorio, in cui si ha la capacità di saldare il sistema porto-retroporto ancorandolo saldamente alle prospettive delle politiche di trasporto europee ed alla piattaforma logistica pugliese che per funzionare, dovrà giocare il ruolo di “area focale di convergenza” delle autostrade del mare mediterranee su Brindisi e Bari insieme ai collegamenti marittimi intercontinentali dell’hub container tarantino e le connessioni terrestri delle rete TEN-T europee sull’ intero sistema portuale.

Se si vorrà affronta qualsiasi pianificazione con superficialità, o con altre prospettive diverse da quelle prima dette, si rischia di fare come si fa si è fatto fino ad ora, producendo progetti e piani di livello locale, che avranno come unico risultato per gli anni a venire, il persistere dell’isolamento strategico e funzionale della portualità brindisina. E mentre il mondo dei trasporti è in piena evoluzione, da noi non si può più stare fermi! Lo ha capito anche chi ha dormito fino adesso e si è improvvisamente destato dichiarando ritrovandosi “portualmente isolato”. Il detto ...meglio tirare a campare che tirare le cuoia… di andreottiana memoria, che pare essere lo stile manageriale più in voga in questo momento, se serve a conservare e produrre nuove, comode e ben remunerate poltrone, non serve certo alla rinascita del porto di Brindisi e dell’economia dell’intera città ma serve di certo, se si continua così, a far tirare le cuoia a noi brindisini.

 

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