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Piazzale Loreto, l’altro, quello del 10 agosto 1944 meno ricordato

Intervento dell'avvocato Carmelo Molfetta sull'eccidio di piazzale Loreto del 10 agosto 1944. In ricordo del sacrificio di 15 partigiani fucilati innocenti ed esposti al pubblico ludibrio nel 76esimo anniversario

Erano tutti detenuti a San Vittore e si chiamavano: Andrea Esposito, Domenico Fiorano, Umberto Focagnolo, Giulio Casiraghi, Salvatore Principato, Eraldo Soncini, Renzo Del Riccio, Libero Temolo, Vitale Vertemati, Vittorio Gasperini, Andrea Ragni, Giovanni Galimberti, Egilio Mostrodomenico, Antonio Bravisa, Giovanni Colletti. Erano tutti antifascisti, partigiani e per questo detenuti a San Vittore. Alle ore 6:10 del 10 agosto 1944, “durante lo stato di guerra tra l’Italia e la Germania”, furono prelevati e letteralmente scaricati in piazzale Loreto ove vennero fucilati. Il plotone di esecuzione era costituito da militi fascisti di “un reparto misto della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) e della legione Ettore Muti”.

L’ordine della fucilazione venne impartito da Theo Saevecke, il quale “secondo la ricostruzione dell’organigramma delle forze tedesche, in Italia rivestiva a Milano il medesimo ruolo che ebbe Kappler a Roma”. “Messi al muro, tutti i morituri rifiutarono di voltare le spalle ai fucilatori”, cioè affrontarono la morte a viso aperto. (Il martire fascista di Adriano Sofri pag. 133 Sellerio”). Eseguito l’ordine della fucilazione, i loro cadaveri furono esposti al vilipendio pubblico in piazzale Loreto per l’intera giornata. La fucilazione venne ordinata ed eseguita come rappresaglia “conseguente all’esplosione dovuta ad un attacco dinamitardo di un autocarro tedesco della Wehrmacht posteggiato a Milano in via Abruzzi, avvenuta il precedente 7 agosto.”

L’attacco dinamitardo, del quale non risulterebbero rivendicazioni da parte di alcuna formazione partigiana, (ci sarebbe però una dichiarazione del comandante Giovanni Pesce <> dei Gap milanesi secondo cui sarebbe stato affidato un incarico al distaccamento Walter per attaccare il maggior numero di autocarri tedeschi Cfr. Giannantoni e Paolucci, 2005/133), non aveva provocato il ferimento di alcun militare tedesco, rimasero però feriti ed uccisi numerosi passanti civili italiani. L’applicazione, in questo caso, delle direttive emanate da Kesserling, secondo cui per ogni tedesco ucciso dai partigiani dovevano essere giustiziati dieci italiani, non rispondeva a nessun dettame delle norme del Codice Penale Militare di Guerra. La fucilazione di quei quindici antifascisti non solo fu ingiusta ed indegna finanche rispetto alle truci regole della guerra, ma fu ingiusta anche perché riguardò quindici persone del tutto estranee all’attentato dinamitardo perché in quel momento erano detenuti a San Vittore. (Il processo ha accertato che nessuna indagine fu compiuta dalla Wehrmacht per risalire agli autori dell’attentato).

Theo Saevecke “faceva parte delle SS, quella struttura militare cioè depositaria e custode dei principi ispiratori del Nazismo, con il grado di Capitano ed all’epoca dei fatti ricopriva l’incarico di responsabile per la Lombardia della Polizia e servizio di sicurezza”. Quell’eccidio, dunque, non “potè che essere deciso dal Comando Sipo/Sd -polizia di sicurezza- di Milano ai comandi del capitano Theo Saevecke” che legittimava quindi la competenza della giurisdizione militare da egli contestata. Mandato a processo, anche egli invocò la non punibilità come poi faranno tutti i gerarchi nazisti resisi responsabili degli eccidi compiuti. In particolare invocò il “diritto” alla rappresaglia e della repressione collettiva”. Durante il processo venne acquisito un documento proveniente dal “Comando della Guardia Nazionale Repubblicana in cui si dava notizia dell’attentato e si elencavano le vittime ed i feriti tutti italiani”.

Nessuna norma di diritto internazionale bellico poteva, dunque, essere invocata per giustificare la sua non punibilità. Il potere di ricorrere alla rappresaglia veniva giustificato dalla necessità di dare una risposta preventiva e repressiva di autotutela ad un fatto illecito che aveva colpito nei suoi diritti uno Stato, doveva avere i caratteri della proporzionalità, e senza violare mai i “più elementari valori umani”. Nessuna di quelle condizioni venne accertato sussistere per legittimare la rappresaglia esercitata nei confronti di quelle vittime innocenti. L’invocazione della applicazione dell’istituto della “repressione collettiva” assume poi i connotati propri della più totale offesa dei valori umani, avendo sostenuto che quella fucilazione “collettiva” appunto, ne contenesse i requisiti.

“Appare superfluo sottolineare che l’attributo allontana inverosimilmente la possibilità di qualificare l’uccisione di più persone come una repressione collettiva non essendovi nulla al mondo di più singolare della vita umana..” volendo significare, invece, che tipica “repressione collettiva è la requisizione di beni pubblici quali edifici, biblioteche musei ed altro..”. Sussistevano dunque tutti gli elementi per giudicare il Capitano delle Ss tedesche Theo Saevecke colpevole dei reati che gli venivano contestati con tutte le aggravanti “della premeditazione e dell’aver agito con crudeltà verso le persone”. Gli vennero riconosciute le attenuanti generiche perché in precedenza aveva favorito la fuga dal carcere di diversi partigiani tra cui Ferruccio Parri, e non si mostrò “insensibile alle richieste di particolari da parte della Curia Milanese.” Anche l’essersi reso disponibile ad affrontare il processo, non essersi mai nascosto, non essersi reso responsabile di altri fatti analoghi, favorì il riconoscimento e l’applicazione delle attenuanti generiche. Riconosciuto colpevole per l’eccidio di piazzale Loreto del 10 agosto 1944, fu condannato all’ergastolo con sentenza resa dal tribunale Militare di Torino il 9 giugno 1999.

In ricordo di quindici partigiani innocenti uccisi per rappresaglia il 10 agosto1944.

(Per gli approfondimenti Proc. Pen. Rnr 1619/96  e N. 409/Rgub tribunale Militare di Torino - Theo Saevecke)

Carmelo Molfetta

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