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Giovedì, 18 Aprile 2024
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A cura di Blog Collettivo

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Stepchild adoption: i bisogni degli adulti e i diritti dei bambini

Parlare di stepchild adoption, cioè di adozione di un figlio del compagno/della compagna nelle unioni omosessuali, significa affrontare almeno tre ordini di problemi

Parlare di stepchild adoption, cioè di adozione di un figlio del compagno/della compagna nelle unioni omosessuali, significa affrontare almeno tre ordini di problemi: quello della affidabilità della ricerca scientifica, quello dei diritti del minore, quello della pratica dell’utero in affitto (con abbellimento semantico definita maternità surrogata, gestazione di sostegno o gestazione per altri). 

Poiché le affermazioni “scientificamente dimostrate” hanno un impatto enorme nella formazione dell’opinione pubblica, non si possono contrabbandare come scientifici studi che non lo sono affatto. Il dibattito negli ultimi tempi sul tema della filiazione per le coppie dello stesso sesso, per la sua valenza altamente emotiva, si presta ad affermazioni di stampo ideologico e politico e rende difficile l’emergere di interrogativi che aiutino davvero a riflettere su una questione la cui complessità non può essere sottovalutata. Perciò è d’obbligo assumere un atteggiamento di cautela e di onestà intellettuale nel propagandare in nome della scienza presunti risultati non testati nel lungo periodo. La perentorietà di certe affermazioni politicamente corrette non appartiene al rigore metodologico della scienza, che, per statuto, non eleva ad assoluto alcun risultato. 

Per i sostenitori della stepchild adoption alcune ricerche dimostrerebbero non esservi differenze nello sviluppo dei bambini nati e cresciuti da coppie dello stesso sesso rispetto ai figli di coppie eterosessuali (Cigoli e Scabini, 2013), ma i limiti metodologici di questi studi sono particolarmente consistenti, perché tarati su campioni composti da membri militanti di organizzazioni omosessuali e non rappresentativi in termini quantitativi. In queste indagini di comodo sono quasi inesistenti le ricerche longitudinali e l’età dei figli raramente raggiunge la giovinezza, età in cui emergono le problematiche identitarie. Del resto oggi si tenta di liquidare frettolosamente le difficoltà che un minore deve superare nel processo di identificazione col padre e con la madre e che per decenni sono state oggetto di importanti studi per lo sviluppo dell’individuo.

Altre ricerche, supportate da campioni rappresentativi più attendibili (Regnerus, 2012; Sullins, 2015), danno, invece, un panorama meno confortante sullo stato di “salute” di tali figli. 

Le ricerche, specie nel campo della psicologia, mentre portano conferme ne dichiarano i limiti e aprono a nuove domande. Per supportare le proprie tesi, pertanto, non si deve sbandierare per attendibilità scientifica ciò che è solo espressione di una ideologia mascherata o per assecondare il “politicamente corretto”. 

Non si può ignorare certamente che, in questi ultimi decenni, la famiglia abbia subito profonde e significative trasformazioni e che 'nuove famiglie' si affiancano a quelle tradizionali.  Si tratta, allora, di capire come conciliare le trasformazioni che ha subito la famiglia con i diritti dei bambini, perché l’ottica con cui si è affrontato il problema è stata centrata solo sui bisogni e sulle problematiche degli adulti.  Purtroppo perfino l’articolo 3 della Convenzione Onu sui diritti dei bambini e delle bambine, che mette al primo posto il “superiore interesse dei minori” documento recepito in Italia con la legge 176/1991, è stato abilmente aggirato da alcune sentenze creative, a forte tasso ideologico. 
Qualche giudice ha deciso d’autorità quale sia il superiore interesse di un bambino, nonostante che le disposizioni di legge in merito siano chiarissime, dando di fatto un sostegno alla maternità surrogata. 

Imporre due madri o due padri significa sottoporre a una sperimentazione antropologica inaccettabile dal punto di vista dei più piccoli. Prima o poi il bambino vorrà sapere chi è veramente il proprio padre naturale o la propria madre, ed è difficile prevedere le sue reazioni. “L’aspirazione di ogni bambino, anche in conformità alla prevalenza del modello sociale attuale, è quella di avere e di crescere con i suoi due genitori 'naturali'. Tutte le altre soluzioni, al di là di pregiudizi e posizioni ideologiche, rappresentano comunque per i bambini motivo di adattamento, ricostruzione di schemi sociali, culturali e biologici, superamento, resilienza. L’equilibrio madre-padre, poi, è fondamentale per la crescita” (Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e membro della Commissione Onu dei diritti dei fanciulli e delle fanciulle a Ginevra). 
Fino a qualche anno fa tutti i manuali più accreditati di psicologica hanno sostenuto come fondamentale per la crescita di un minore l’equilibrio madre-padre. Improvvisamente si afferma il contrario e senza prove fondate. 

Pur di nascondere l’evidenza che per il bambino il tema della propria origine rimarrà sempre ingarbugliata, viene detto che se c’è amore c’è tutto: Love is Love. La richiesta delle coppie gay e dei single di poter adottare e di avere il diritto di farlo quindi è una richiesta “in nome dell’amore”. Nessuno mette in dubbio la capacità genitoriale degli omosessuali, ma non è questo l’aspetto decisivo: una coppia omosessuale, pur con tutta la sua buona volontà, nega la differenza fra maschile e femminile e questo è contraddire la natura. Se l’amore è il criterio che viene usato per legittimare l’adozione a coppie dello stesso sesso, allora per coerenza non si potrebbero escludere tutte le altre relazioni sentimentali umane in cui tale richiesta viene fatta “in nome dell’amore”. 

Il diritto preteso da due omosessuali di avere un figlio comporta logicamente che quel bambino provenga da altrove. Quindi il ricorso alla pratica dell’utero in affitto, anche se condannata in Italia, è una via praticabile negli Stati che la consentono. A favore di questa pratica si portano le più svariate giustificazioni: perché vietarla se non si realizza in un contesto di sfruttamento? Le donne devono avere la libertà di scelta, sul proprio corpo, sulla propria vita (on. Scalfarotto); se è fatta per necessità economica è meglio della prostituzione (Umberto Veronesi).

Alcuni media fanno hanno dipinto l’utero in affitto come un dono verso chi non può procreare, con interviste e foto di gruppo di persone sorridenti e felici, dietro le quali compaiono paesaggi rassicuranti: nulla a che vedere con sfondi da periferia di New Delhi o da campagna ucraina. La realtà dei fatti è ben diversa e nessuna donna accetterebbe di fare un figlio per altri come donazione gratuita, dopo aver stretto una profonda relazione con lui per nove mesi. La verità è che l’esasperato desiderio di bambini si trasforma “in diritto al figlio” e si è disposti a tutto per ottenerlo. 

Questa pratica è realizzata da imprese che, in diversi Paesi, si occupano di riproduzione umana, in un sistema organizzato di produzione, che comprende cliniche, medici, avvocati, agenzie etc.  Sfruttare le donne e produrre bambini è un business dalle proporzioni inimmaginabili. Le richieste in genere provengono da ricche coppie omosessuali o eterosessuali occidentali, disposte a pagare centomila dollari per comprare la loro maternità. Attraverso le nuove agenzie d’intermediazione attivissime il fenomeno si è organizzato come un vero mercato. Il contratto, tutto a vantaggio del committente, stabilisce le modalità di selezione delle «donatrici» di ovuli (in realtà a pagamento sostanzioso); chi porterà il bambino nel suo corpo; che cosa fare se la madre ci ripensa.

E’ previsto anche l’eventuale aborto e in caso di handicap il rifiuto di prelevare il bambino, che rimane alla donatrice. I rischi per la donna donatrice che si sottopone a elettrostimolazione ovarica, la sottrazione del neonato alla madre biologica, i problemi di identità che costui avrà quando capirà come è venuto al mondo, tutto questo in nome della libertà di scelta sulla vita propria e altrui. Nessuna considerazione per il bambino al quale viene rubata la propria identità e che nel corso degli anni non potrà narrare la sua storia familiare, né rispondere alla domanda “chi sono io?”, “da dove vengo?”. Mai alcun commento o approfondimento sui media, addomesticati dalle lobbies di turno, per informare l’opinione pubblica.

A coloro che sono favorevoli all’utero in affitto si sono contrapposte le durissime reazioni di condanna a livello internazionale -  questa volta solo a difesa della donna - da parte delle organizzazioni femministe. Nel momento in cui si paga per un figlio, sfruttando una condizione di povertà, infatti, si è ravvisato soprattutto un fondo di razzismo e di neocolonialismo nei confronti delle donne, giacché sfrutta l’indigenza di Paesi come India, Nepal, Thailandia. 

Il 2 febbraio 2016, ad esempio, le femministe storiche francesi del Collettivo per il rispetto della persona, guidate dalla filosofa Sylviane Agacinski, hanno organizzato presso l’Assemblea Nazionale a Parigi un convegno internazionale per chiedere l’abolizione universale della maternità surrogata. All’Assise ha partecipato anche il Comitato italiano “Se non ora quando”.  Tra gli abolizionisti ci sono esponenti del cinema, della letteratura, degli ambiti accademici e dell’associazionismo. Si va dall’attrice Stefania Sandrelli all’ex deputato del Pci Giuseppe Vacca; dalla scrittrice Dacia Maraini all’attore Claudio Amendola. Ma ancora una volta è calato il silenzio dei mass media sull’iniziativa.

Due considerazioni finali.  Il destino dell’umanità non è nelle mani degli psicologi, dei sociologi, né di chi propugna la manipolazione genetica dell’individuo e delle tecniche di fertilità. La dimensione autentica dell’umano non si riduce alle componenti psicologiche e sociali ma a quella etica, l’unica che può dare risposte al senso del nostro vivere e del nostro destino è fondare su basi stabili la convivenza civile e i rapporti interpersonali. Il rischio odierno è di credere che la tecnologia risponda compiutamente ai bisogni e ai diritti dell’individuo.
 

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