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A cura di Blog Collettivo

Una storia da ricostruire: il bellum sallentinum

Nazareno Valente ripercorre le vicende che nel III secono a.C. contrapposero i Romani ai Tarantini e ai Brindisini

È mia convinzione che la storia della nostra millenaria città sia stata sin qui raccontata un po’ troppo a spanne e, per questo, meriterebbe d’essere rivisitata in molti dei suoi avvenimenti. Il fatto stesso che sia toccato a me, un illustre anonimo hobbista, di scoprire che dietro il passo con cui Floro (I secolo d.C. – II secolo d.C.) narra l’episodio della dea Pales ci fosse il nostro nume tutelare e non le fantasticherie di uno storico in vena di stupire, chiarisce l’inadeguatezza di certa cronachistica e la scarsa attenzione degli storici per le nostre antichità. In caso contrario, soprattutto questi ultimi, avrebbero dovuto riconoscere, nella promessa di Attilio Regolo, il rituale («evocatio») con cui i Romani blandivano la divinità protettrice della città assediata per invogliarla a passare dalla loro parte (leggi l'articolo). 

Temo, per altro, che questa non sia l’unica disattenzione in cui gli esperti sono incorsi, e lo evidenzia sempre lo stesso brano di Floro, autore non a caso poco considerato, magari perché di difficile interpretazione. Oltre a raccontare della dedica d’un tempio fatta da Regolo a Pales Matuta, Floro tocca un altro punto importante collegando la guerra salentina a quella scoppiata nel Piceno, il cosiddetto «bellum picenum». Ci fa infatti sapere che: “alla sottomissione dei Picenti, si aggiunse quella, compiuta da Attilio Regolo, dei Salentini e della capitale della regione, vale a dire Brindisi insieme con il suo famoso porto” («Sallentini Picentibus additi caputque regionis Brundisium cum inclito portu M. Atilio duce»). 

La storiografia ufficiale, al contrario, considera il «bellum sallentinum», e la relativa campagna militare condotta nel III secolo a.C. dai Romani per il controllo di Brindisi e del Salento, un’appendice del conflitto che vide Taranto opposta all’Urbe. Relega così l’argomento tra i tanti eventi privi d’un proprio rilievo anche perché, constatata la scarsità del materiale a disposizione per eventuali approfondimenti, non intravede la speranza di poter ricavare qualcosa di nuovo, né opportunità d’indagine. Analogo disinteresse è riscontrabile tra gli studiosi locali che, così come avviene per le antichità in genere, si limitano per lo più a riciclare le informazioni desunte dai cronisti del passato, pur trattandosi d’un argomento che meriterebbe ben altro apprezzamento, considerato che rappresenta un fondamentale momento di trapasso nella storia di Brindisi. L’inevitabile conclusione è che la guerra salentina resta confinata in un cono d’ombra appena rischiarato dall’unico dato certo — e per altro del tutto ovvio — che la nostra terra fu, in un qualche modo, alfine conquistata dai Romani. E, quel ch’è peggio, si danno per scontate questioni che in verità scontate non sono, prima fra tutte quella che ipotizza che i Brindisini abbiano fatto fronte comune con i loro tradizionali nemici tarantini per contrastare l’avanzata romana.

Foto in basso - Cavaliere tarantino (tratto da www.pinterest.it)

Cavaliere tarantino (tratto da www.pinterest.it)-2

In merito, sarei invece propenso a credere l’esatto contrario: Brindisi non fece neppure in questo frangente comunella con Taranto e non partecipò alla coalizione costituita dai Tarantini per sconfiggere i Romani. In altre parole, diversamente da quello che si sente ripetere, l’Urbe non affrontò una coalizione che vedeva al proprio interno accomunati i Brindisini ai Tarantini, per cui, sconfitti questi, rivolse poi le armi contro quelli proseguendo le fasi d’una stessa guerra. I fatti, a mio giudizio, raccontano una storia diversa: Roma soggiogò le due città in due conflitti ben distinti, sebbene facessero parte di una medesima prospettiva politica di conquista: il primo contro la coalizione tarantina, guidata dal re epirota Pirro, per eliminare l’ultimo pericoloso nemico in terra italica; il secondo contro Brindisi ed i suoi alleati salentini, per impossessarsi degli approdi che davano accesso alla costa adriatica. Per meglio valutare questa mia interpretazione, si prenderanno le cose alla lontana, incominciando il racconto sin dagli episodi che fecero da preambolo al primo dei due scontri, cioè a dire al «bellum tarentinum».

Il bellum tarentinum

Siamo nel 283 a.C. a Thurii una città della Magna Grecia in cui si respirava aria del tutto particolare. Fondata più di un secolo e mezzo prima sul sito della più celebre Sybaris, Thurii era infatti l’unica esperienza coloniale d’ispirazione ateniese a cui avevano però partecipato varie città greche e personaggi di spicco. Tra questi il famoso Erodoto (V secolo a.C.) che, in un tramonto estivo, declamando le sue “Storie” nell’agorà della colonia panellenica, ci regalò il primo riferimento letterario in assoluto sulla nostra città. Parlando di penisole (la Tauride ed il Sunio), che potevano essere sconosciute a chi l’ascoltava, lo storico pensò bene di fornire un esempio riconoscibile a tutti indicando la nostra penisola salentina che individuò tramite l’istmo che univa Taranto al porto di Brindisi. In effetti era salda l’amicizia che legava Thurii a Brindisi, perché comune era l’inimicizia coltivata per Taranto. Proprio a causa di questa accesa ostilità nei confronti della città ionica, i Turini, attaccati dalle forze congiunte dei Lucani e dei Brettii (abitanti dell’odierna Calabria) avevano preferito chiedere aiuto ai Romani piuttosto che ai propri alleati della lega Italiota che, in quel periodo, risultava troppo sottomessa ai voleri degli odiati Tarantini. 

Aderendo all’invito, i Romani erano così giunti nel 282 a.C. in soccorso dell’oligarchica Thurii e, dopo aver allontanato il pericolo, vi avevano lasciato un presidio a tutela, attirandosi le ire di Taranto che visse l’intervento come un vero affronto. Per riaffermare la sua supremazia sulla Magna Grecia, la città ionica attaccò allora una squadriglia navale romana che, in violazione di un precedente trattato, s’era inoltrata oltre il capo Lacinio. In questo modo fu accesa la miccia che avrebbe poi fatto esplodere il conflitto tra Taranto e Roma.

Di là dalla riscoperta del gemellaggio tra la nostra città e Thurii, l’episodio è significativo perché precisa che non c’era comunità d’intenti, neppure all’interno della stessa lega italiota, che pure aveva tutto da perdere per l’avanzata romana. A maggior ragione si possono presumere naturali resistenze nel mondo brindisino, e salentino in genere, che, già per secolare avversione, mal digeriva l’invadenza dei Tarantini. Per cui dubito molto che i nostri concittadini abbiano potuto trovare un terreno comune di dialogo con i loro tradizionali nemici, pur di fronte ad un pericolo imminente. 

D’altra parte sono i dati che lasciano ampio spazio a simili dubbi.  La tradizione storiografica comunemente favorevole all’Urbe ci racconta che i Romani fecero di tutto per ricomporre il dissidio con Taranto. Visto però che le buone maniere non sortivano alcun effetto, passarono a modi molto più sbrigativi. Così nel 281 a.C. per costringere gli avversari a più miti consigli, Barbula saccheggiò la «chora» tarantina, vale a dire le terre coltivate che si trovavano fuori le mura della città. Poiché in questa azione, il console non andò tanto per il sottile, anche i campi brindisini, che confinavano con quelli della città ionica, finirono per essere coinvolti. Sicché ci fu la giusta reazione dei nostri avi che si opposero alla razzia al pari dei Tarantini. L’azione non fu però concordata e solo per caso le forze brindisine e lacedemoni si trovarono accomunate da uno stesso obiettivo.

In ogni caso il raid attenuò al momento l’ardore di Taranto che s’affidò ad Agide, un politico più possibilista e, soprattutto, più propenso a cercare un accordo negoziato con l’Urbe. Di lì a poco, però, il tentativo per una soluzione pacifica andò a vuoto. Pirro, famoso condottiero del tempo, aveva infatti nel frattempo aderito alla richiesta tarantina di mettersi a capo della coalizione antiromana, insieme con la sua temuta armata epirota. Per fargli accettare la proposta, Taranto aveva gonfiato il proprio apparato bellico, millantando sia truppe non possedute (qualcosa come 350.000 fanti e 20.000 cavalieri), sia adesioni non ancora acquisite. Tra gli alleati venivano ricompresi i Messapi — etnico con cui i Greci identificavano i nostri antenati — la cui partecipazione in quel contesto era più ipotetica che effettiva.

Pirro sbarca a Brindisi

Pirro si lasciò comunque convincere e decise di salpare per l’Italia con un contingente che, a detta di Plutarco (I secolo d.C. – II secolo d.C.), sfiorava le trentamila unità e poteva contare su venti elefanti. Nel racconto del biografo greco il viaggio fu tra i più avventurosi: nel bel mezzo dello Ionio, un violento vento di tramontana scompiglio la flotta disperdendola per ogni dove. In particolare difficoltà si trovò proprio la galea reale che fu sospinta verso le nostre coste. Quand’ormai era prossima all’approdo, un forte vento di terra la stava per ricacciare pericolosamente in alto mare per cui Pirro ed il suo seguito furono costretti a guadagnare la riva a nuoto. Qui furono alfine soccorsi con sollecitudine dai nostri concittadini.

In effetti il resoconto del biografo si sofferma troppo su aspetti alquanto fantasiosi, creando qualche serio dubbio di attendibilità. Molto più veritiero sembra il racconto dello scrittore Pausania (II secolo d.C.), che meglio s’intona con l’indole del condottiero epirota. Secondo questa versione, Pirro, non fu spinto casualmente dal vento sulle nostre coste, ma vi si inoltrò per scelta consapevole. Infatti, venuto a conoscenza che i Romani intendevano intercettare la sua flotta, aveva deciso, invece di seguire la via più ovvia che portava direttamente a Taranto, dopo aver doppiato il capo Iapigio (Santa Maria di Leuca), di fare rotta verso Brindisi e poi, qui giunto, di completare il viaggio per via di terra. 

Pausania dichiara in maniera esplicita che, solo grazie a questa mossa previdente, che aveva colto del tutto alla sprovvista i Romani, Pirro era riuscito ad eludere il blocco navale ed a raggiungere senza grossi problemi Taranto nel maggio del 280 a.C. Il che lascia supporre che i Romani consideravano inimmaginabile che Pirro potesse scegliere l’approdo brindisino come tappa intermedia e, in definitiva, che la realtà fosse ben diversa da quella sin qui prospettata dagli storici. In altre parole è il primo motivo valido per sospettare che Brindisi non avesse aderito alla coalizione antiromana, decidendo piuttosto di tenersi neutrale e lontana dal conflitto. Eppure la storiografia moderna non s’è neppure interrogata sulla questione, trovando più conveniente usare le solite semplificazioni di comodo. Nei casi del genere, quando due potenze egemoni sono in lotta, si ritiene automaticamente che tutte le città limitrofe debbano necessariamente comportarsi come stati satelliti, ed essere perciò costrette ad aderire all’uno o all’altro campo.

Brindisi rifiuta di far parte della coalizione antiromana

Certo Brindisi non aveva una potenza pari a Taranto, né, soprattutto, poteva contare su un complesso di alleanze nemmeno confrontabile. Tuttavia, per secoli, aveva tenuto con profitto testa alla colonia lacedemone non consentendole di espandersi più di tanto nel Salento, per cui era in grado di farsi valere e di mantenere una propria identità. Ed in effetti, l’ipotesi che i Brindisini si astennero dal conflitto, sebbene scartata a priori dagli studiosi, pare di gran lunga la più vicina alla realtà. Dalle fonti emergono infatti solo pochi e contraddittori indizi che avvalorano una partecipazione dei Brindisini alla coalizione tarantina. Un paio li abbiamo già elencati: l’azione comune per contrastare i raid di Barbula sulle terre di confine delle due città salentine — per altro precedente l’effettivo scoppio della guerra — e la sollecitudine («prodúmos», attenendosi al termine usato da Plutarco) nel soccorrere il naufrago Pirro. Oltre queste due impalpabili menzioni, nei resoconti d’epoca pervenutici c’è traccia di un’eventuale presenza dei Brindisini in un’unica occasione, in un passo di un autore della cui affidabilità generalmente si dubita. 

Descrivendo la strategia adottata da Pirro nello schierare le truppe nella battaglia di Ascoli Satriano (279 a.C.), Frontino (I secolo d.C. – II secolo d.C.) cita infatti tra gli alleati del condottiero epirota, oltre naturalmente ai Tarantini, i Sanniti, i Bruzi, i Lucani ed anche i Salentini, posizionati sul fianco sinistro dello schieramento («sinistro...  Sallentinis»). Ricordato che in questi elenchi, non veniva in genere citato il nome della città ma l’etnico dei suoi abitanti, e che per gli storici di lingua latina i Brindisini erano Salentini, deve rilevarsi che il titolo stesso dell’opera (“Stratagemmi”) tradisce gli interessi dell’autore per le tattiche e gli aneddoti, essendo le altre questioni per lui di secondaria importanza. Nel caso specifico è lo stratagemma adottato da Pirro — cioè a dire l’aver messo al centro i Tarantini, ritenuti pessimi combattenti — che sta a cuore a Frontino, non tanto chi prende parte alla battaglia. Non per niente Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.), autore di ben altra cifra e, in aggiunta, più vicino al periodo di accadimento dei fatti, si mostra d’avviso decisamente opposto e non contempla, in questa occasione, come in nessun’altra fase del conflitto, la partecipazione dei Salentini. In definitiva, sembra alquanto azzardato dar per certo il coinvolgimento dei Brindisini nella coalizione antiromana, sulla base di quest’unica, e per giunta dubbia, citazione.

Basterebbero di per sé queste considerazioni per far maturare una diversa ipotesi, e incominciare a pensare che, così com’era avvenuto in passato, i Brindisini s’erano ben guardati dall’allearsi con i Tarantini e dal prendere le armi contro i Romani. Ma, se ve ne fosse bisogno, c’è un brano di Cassio Dione (II secolo d.C. – III secolo d.C.), contenuto nell’epitome di Zonara (XII secolo d.C.), che consente di dare per acquisito che Brindisi si tenne neutrale e, conseguentemente, di considerare la guerra salentina in una diversa ottica: non più come una semplice appendice dello scontro che vide Taranto confrontarsi con l’Urbe — oppure una sua diretta conseguenza — ma al contrario un conflitto a sé stante. 

A detta di Dione, i Romani mossero le armi contro Brindisi con il pretesto che vi era stato accolto Pirro e che erano state fatte incursioni contro i loro alleati. Nella realtà, però, volevano impadronirsi della nostra città, perché dotata d’un buon porto che costituiva un punto d’arrivo e di sbarco per chi navigava dall’Illiria e dalla Grecia. In pratica l’autore indugia sui retroscena e spiega i reali motivi che spinsero Roma a cercare lo scontro. 

Roma dichiara guerra a Brindisi

Tuttavia per cogliere meglio gli aspetti sostanziali del racconto, occorre riprendere, sia pure succintamente, quanto già detto riguardo agli scrupoli religiosi dei Romani. S’è già sottolineato come ogni evento bellico era considerato un atto teoricamente sacrilego che rischiava di provocare l’ira degli dèi e di far perdere il loro favore, se compiuto fuori dai crismi giuridici e religiosi. Per questo ogni conflitto doveva essere rispettoso del diritto e delle leggi divine e poteva coinvolgere la città solo se essa aveva subito un grave affronto. Almeno formalmente, tutto ciò implicava che Roma entrava in guerra solo quando si trovava dalla parte della ragione, seguendo inoltre lo specifico rituale disciplinato dal cosiddetto diritto feziale («ius fetialis»). 

All’atto pratico c’era un organo sacerdotale, il collegio dei feziali, che, valutati gli eventi e constatata la sussistenza delle condizioni per dare avvio alle ostilità, svolgeva poi tutte le procedure che portavano alla dichiarazione di guerra («indictio belli»). 

Foto in basso - Arciere e oplita epiroti (disegno di Eugenio Corsa)

Arciere e oplita epiroti (disegno di Eugenio Corsa)-2

Nella sostanza il protocollo prevedeva che il «pater patratus» (il capo della delegazione dei feziali), presentatosi nel foro della città nemica, comunicava quali colpe le erano imputate e cosa Roma chiedeva a riparazione dell’oltraggio subito. Se la città avversaria non accettava entro un determinato tempo le condizione imposte, il collegio si recava ai confini del territorio nemico e lanciava un’asta, indicando così l’inizio del conflitto. Va chiarito che in tutto questo iter non c’era spazio per il contraddittorio, per cui la parte avversa non poteva né far presenti, né tantomeno far valere, le proprie ragioni. Di fatto, l’unico modo per evitare la guerra era piegarsi alle condizioni poste dai feziali e, quindi, dal popolo romano. 

Ora siamo in grado di dare un senso più compiuto al passo di Dione. Esso infatti non fa altro che riprendere in forma succinta la fase in cui il «pater patratus» elencò le colpe addebitate alla nostra città e cosa l’Urbe pretendeva per sanare l’offesa subita. Nello specifico Brindisi era accusata d’aver accolto Pirro e di avere fatto incursioni contro gli alleati dell’Urbe e le si chiedeva, a indennizzo del danno compiuto, di far gestire il porto alle autorità romane, fermo restando che la non accettazione della clausola, fissata unilateralmente dai feziali, comportava un automatico stato di guerra con Roma. Dal che si deduce in maniera evidente che il contenzioso ebbe inizio successivamente all’arrivo di Pirro e, quindi, quando le ostilità tra Taranto e Roma erano già iniziate da tempo.

Occorre inoltre considerare che i feziali ricordavano i danni subiti per sottolineare che era la parte avversa ad essere in colpa. In altre parole, il collegio cercava di convincere gli dèi — ma soprattutto l’opinione pubblica — che Roma era giustificata ad entrare in guerra, perche costretta dai gravi oltraggi subiti. È dunque evidente che più rilevante era la colpa addebitabile all’avversario, più diventava fondata l’azione intrapresa. Nel caso specifico, l’offesa che avrebbe potuto giustificare a pieno titolo la reazione dei Romani era che Brindisi si fosse alleata con i Tarantini partecipando perciò alle azioni di guerra. Se non esposero una tale causa, è ovvio che essa era palesemente falsa. 

Di fatto i nostri antenati furono accusati di colpe inconsistenti; non a caso Zonara, nel compendiare Dione, chiarisce in maniera evidente che i Romani fecero ricorso ad un banale pretesto («profàsei»), per spiegare il perché del loro attacco a Brindisi. L’accusa di aver compiuto incursioni contro i loro alleati faceva infatti parte delle scuse standard, inserite d’abitudine in tutte le dichiarazioni di guerra. L’altra «iniuria», vale a dire quella d’aver accolto Pirro, non era certo una colpa ma una normale operazione commerciale. Era allora prassi che chiunque poteva richiedere ed ottenere di fare scalo in un porto, previo pagamento del dovuto pedaggio e purché non fosse animato da cattive intenzioni. Quali fossero poi i propositi dei viaggiatori nei confronti delle città più o meno vicine, non era certo compito di chi gestiva lo scalo il doverlo verificare e, meno che mai, il doversi far carico del problema. Fino a quando non si concedevano aiuti in armi o in soldati oppure, all’opposto, non si negava la possibile a qualsiasi tipo d’approdo, si era considerati neutrali. E Brindisi — lo testimonia l’accusa stessa dei Romani — non aveva fornito né armi né soldati a Pirro; s’era solo limitata a consentirgli di sbarcare. 

D’altra parte, è del tutto evidente che, se Brindisi si fosse schierata contro i Romani, questi non avrebbero avuto bisogno d’un pretesto per muoverle guerra.  La dinamica degli avvenimenti ci consente poi di determinare quando i feziali espressero l’intenzione dell’Urbe di attaccarci. I Romani, arresasi Taranto (272 a.C.), riuscirono a piegare tutti gli altri belligeranti entro l’anno successivo, estendendo in questo modo la loro influenza sul versante ionico. Dopo un paio d’anni di pausa, intrapresero la conquista del versante adriatico: dapprima sconfiggendo i Picenti (269 a.C.), una popolazione che in precedenza s’era mantenuta sempre in buoni rapporti con Roma, e poi pianificando, tra la fine del 268 a.C. e l’inizio del 267 a.C. l’invasione del Salento. 

Il bellum sallentinum scoppiò pertanto quattro anni dopo la fine del bellum tarentinum. In pratica Roma tirò fuori il pretesto per iniziare le ostilità contro i Brindisini un bel po’ di tempo dopo l’eventuale affronto subito. Ed il perché appare evidente: finché era impegnata a guerreggiare in contemporanea contro Pirro, Tarantini, Apuli, Lucani, Bruzi e Sanniti, Roma aveva avuto tutto l’interesse a preservare uno stato di pace con i Brindisini e ad astenersi da azioni di rivalsa.

Sebbene obbedissero alla stessa volontà di conquista, le guerre fatte a Taranto ed a Brindisi seguirono pertanto progetti strategici distinti, oltre che avvenire in tempi del tutto diversi. In aggiunta, con Brindisi non c’erano conti da saldare, ma solo un’egemonia da imporre con la forza. Fu in un giorno di primavera del 267 a.C. che le truppe romane, guidate dal console Attilio Regolo, invasero la nostra terra dando così inizio alle ostilità. I Brindisini non rimasero però lì a guardare.

(1 – continua)

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