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Giovedì, 25 Aprile 2024
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A cura di Blog Collettivo

Patti agrari iniqui e viticoltura del passato a Brindisi  

La concentrazione della proprietà fondiaria nelle mani di pochi possidenti assenteisti è stata la causa principale dell'arretratezza del mezzogiorno

La concentrazione della proprietà fondiaria nelle mani di pochi possidenti assenteisti, quando l'agricoltura era la struttura portante dell'economia del paese, fino agli anni '50 del secolo scorso, è stata la causa principale dell'arretratezza del mezzogiorno. Già Plinio il vecchio con l'espressione lapidaria " latifundia italiam perdidere" riconosceva nell'estensione e diffusione del latifondo la causa prima della decadenza dell’Impero Romano. Tale condizione strutturale, perpetuatasi in diverse varianti, diventando quasi normalità ed essere generalmente accettata fino a tempi recenti, dati i rapporti di forza favorevoli alla grande proprietà, divenne insopportabile ed inammissibile dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Quando la miseria e la disoccupazione spinsero un gran numero di contadini poveri e di braccianti agricoli senza lavoro, né terra, a reclamare in grandi manifestazioni di popolo, spesso represse nel sangue, 'pane e lavoro', 'terra e lavoro', 'la terra a chi la lavora', intendendo con quest'ultimo slogan, soprattutto, la concessione di terre da lavorare a condizioni meno proibitive. A farsi carico dei problemi di quel tempo turbolento fu il ministro dell'agricoltura on.Gullo del Pci (1944-46); definito il ministro dei contadini, in virtù dell'emanazione di alcuni decreti legislativi, che prevedevano, tra l'altro, la revisione dei patti agrari in senso favorevole ai contadini e la concessione ai braccianti agricoli ed ai contadini poveri dei terreni incolti o mal coltivati. Quei decreti furono, però, osteggiati dalla parte padronale che trovò comprensione nei governi a guida Dc dell'epoca. La diversa interpretazione che la Dc conferì a quei problemi scottanti comportò come primo atto la nomina a ministro dell'agricoltura dell’on. Segni, democristiano e grande proprietario terriero, in sostituzione del comunista Gullo. La forte pressione di popolo di quegli anni e le lotte che si susseguirono dettero luogo all'occupazione delle terre in diverse realtà, come l'occupazione delle proprietà fondiarie del barone Tamborrino, in quel dell'Arneo in Salento che indussero i governi democristiani dell’epoca a varare a fine 1950 una riforma agraria, detta Stralcio, che prevedeva l'esproprio parziale dei terreni della grande proprietà per redistribuirli in piccoli lotti a favore di concessionari aventi diritto. 

A Brindisi, pur nella la vastità del territorio, la riforma fondiaria intaccò appena i potentati agrari e la diffusione della grande proprietà terriera, con una concreta attuazione solo in alcune località, come Pilella, Apani, San Paolo e Colemi verso Tuturano. In tali ed altre contrade si procedette all'assegnazione delle quote di circa 5 ettari ciascuna, dotate di casa colonica, per la residenza in campagna, a numerosi assegnatari nella nuova veste di piccoli proprietari/imprenditori. Il gran tempo trascorso ha evidenziato come quella riforma tanto attesa presentasse notevoli limiti e le poche strutture rimaste in piedi ed i molti poderi abbandonati sono ora solo un documento storico di quel periodo travagliato.

La grande proprietà fondiaria brindisina già da tempo aveva scelto altre strade per tutelare i propri interessi. Percorrendo l’antica tradizione della coltivazione della vite allevata ad alberello pugliese, nota dall'antichità per la bontà dei vini prodotti, dotati di struttura (colore, gradazione alcolica, amabilità), molto richiesti dal mercato per 'tagliare' vini meno dotati di altre zone, la grande proprietà utilizzava l’enorme disponibilità di manodopera presente a Brindisi e nei comuni limitrofi, vincolandola a vantaggiosi contratti di colonia parziaria. Procedendo alla divisione di terreni aziendali in tante piccole quote inferiori ad un ettaro ciascuna, un tomolo brindisino, li concedeva, in base all'antico principio del " divide et impera", ai numerosi braccianti in cerca di occupazione, ai contadini poveri, ai proprietari di piccoli appezzamenti di terreno insufficienti per i propri fabbisogni famigliari. In tal modo i grandi proprietari assenteisti, interessati a percepire la pura rendita fondiaria, evitavano di assumersi la responsabilità diretta ed in proprio della coltivazione dei terreni, trovando più conveniente lasciare ai loro fiduciari, i fattori, in genere poco benevoli verso i coloni, la cura dei rapporti con i concessionari.

Su questi, ricadeva il maggior peso della coltivazione, ivi compreso l’onere della manodopera, non ripagato da appena la metà dell'uva prodotta e trattenuta dopo il raccolto. L'altra metà veniva consegnata al proprietario, ed in misura leggermente inferiore nei casi di colonia migliorativa, quando i coloni in precedenza avevano proceduto a loro spese all'impianto del vigneto. In quegli anni difficili, dure ed incessanti furono le lotte ingaggiate dal movimento sindacale e politico dei contadini - Alleanza dei contadini, Cgil e Pcci, soprattutto - per migliorare le condizioni di lavoro dei coloni, riuscendo ad ottenere alcuni riscontri positivi a livello legislativo con l'approvazione di importanti leggi più favorevoli alla parte colonica, da sempre soccombente. Le più significative da ricordare furono la legge n. 756 del 1964 che concedeva, tra l'altro, la possibilità al colono, prima negata, di compiere innovazioni colturali, ad es. di sostituire un vigneto vecchio e poco produttivo con uno di nuovo impianto.

Ancor più significativa e rilevante, a livello nazionale, la legge n. 11 del 1971, che introduceva l'equo canone nell'affitto dei fondi rustici, prima esorbitante ed iniquo costringendo l'affittuario a continue regalie di stampo medievale. Quest’ultima legge, inoltre, consentiva al concessionario ampia facoltà di intervenire per migliorare le strutture dei fabbricati rurali e di trasformare gli assetti produttivi aziendali. Quella legge, voluta in particolare dagli affittuari delle grandi aziende zootecniche del nord, non certo elettori dei partiti di sinistra,  ed approvata, dopo aver indotto a più miti consigli la Dc ed i suoi alleati di governo su pressione dell'opposizione del Pci, riuscì ad intaccare il potere della grande proprietà e, data la generale e soddisfacente applicazione nel paese, indusse il movimento contadino, sindacale e politico, come sopra evidenziato, a reclamare a gran voce la trasformazione dei contratti di mezzadria e colonia parziaria, allora vigenti, in contratti di affitto, come disciplinati dalla legge n. 11 del 1971. 

A livello locale, nel frattempo, si erano sviluppate a Brindisi e nei comuni della provincia, diffuse e partecipate manifestazioni unitarie, oltre a scioperi, iniziative e mozioni nei consigli comunali, per rivendicare maggiori riparti del prodotto a favore dei coloni e minori spese a loro carico, sollecitando la conversione dei contratti colonici in contratti di affitto. Tali richieste e le conquiste ottenute, in sede di contrattazione, con alcuni miglioramenti in favore dei coloni, furono difficili da mantenere, data la estesa inosservanza del padronato agrario a rispettare gli impegni in precedenza sottoscritti con le rappresentanze dei lavoratori. Bisognò aspettare, pertanto, il 1976, quando si verificò l'avanzata strepitosa del Pci alle elezioni politiche di quell'anno per sperare di vedere realizzata una modifica della normativa sui patti agrari, in senso più civile ed equo, come auspicata dal movimento contadino. Nei governi di solidarietà nazionale dell'epoca, come richiesto dal movimento progressista, a presiedere la commissione agricoltura del Senato, della quale anche il sottoscritto era componente, fu nominato il comunista E. Macaluso, strenuo assertore della conversione in affitto dei contratti di mezzadria e colonia parziaria.

In quella sede si procedette di buona lena  alla discussione per l'approvazione del nuovo articolato, ma le resistenze e le tergiversazioni degli oppositori alla modifica in senso innovativo della legge furono tante e tali che si dovette attendere la legislatura successiva, la VIII, per vedere approvata dopo lunghe e defatiganti trattative e compromessi la nuova normativa sui patti agrari.legge n. 203 del 1982, con la possibilità, a determinate condizioni, di trasformare in affitto i contratti  di mezzadria e di colonia parziaria.  Quella riforma tanto desiderata, ebbe, tuttavia, scarsa applicazione e fu di breve durata nel brindisino, per una serie di fattori che si erano susseguiti nel tempo. Già nei primi anni ’60, l’insediamento di grossi complessi industriali, il Petrolchimico a Brindisi e l’Italsider a Taranto, aveva contribuito ad allentare la pressione occupazionale nelle campagne, in quanto molti lavoratori, impiegati saltuariamente nelle attività agricole, scelsero di diventare operai in quelle fabbriche e nell’indotto. A riguardo, degne di essere ricordate erano le lunghissime file di mezzi di trasporto, anche occasionali, dei numerosi questuanti che aspettavano di essere ricevuti nella villa sulla via Appia, a pochi chilometri da Brindisi, dell’on. Caiati, democristiano: il maggiore dispensatore di ‘favori’ dell’epoca, ivi compresa la collocazione di manodopera in vari settori. Quelli erano anche gli anni del ‘miracolo economico’ che indussero moltissimi lavoratori della campagna a emigrare al nord per trovare impieghi meglio retribuiti nell'industria, contribuendo così a far mancare il ‘turn-over’, cioè il ricambio generazionale nelle aziende coloniche. 

Nello stesso periodo ebbero gran successo, inizialmente, processi di diversificazione dell’apparato produttivo, con l’introduzione nel vasto territorio brindisino di colture orticole irrigue, come il carciofo ed il pomodoro da industria, utilizzando per l’irrigazione l’acqua attinta da pozzi artesiani a notevole profondità, molto diffusi nelle campagne. L’alto impiego di manodopera, richiesto da quelle colture e da altre, come il pescheto per la produzione di varietà precoci (june gold ed altre) contribuì a determinare maggiore occupazione nel settore agricolo, facendo mancare, pertanto, l’interesse dei lavoratori per il possesso di quote di vigneto a colonia. Mentre la coltura del carciofo ha mantenuto nel tempo la sua validità, anche se soggetta a periodiche difficoltà di collocamento dei prodotti sul mercato, le altre colture, pomodoro e pescheti, diffuse a dismisura sul territorio, dopo alterne vicende entrarono in crisi persistente per assenza di domanda e per le basse quotazioni di mercato, nonostante per alcune di esse, come il pomodoro da industria, si fosse provveduto a dotarle di un consistente apparato di trasformazione (conservifici), diffusi in provincia, che ben presto dovettero essere smobilitati. Ripetuti furono all’epoca gli interventi dell’AIMA, a difesa e sostegno dell'offerta dei coltivatori, rivolti al ritiro del prodotto invenduto e la conseguente distruzione per consentire un prezzo maggiore sul mercato.

Anche la viticoltura, dopo aver conosciuto il massimo dell’espansione negli anni ’70, iniziò di lì a poco la parabola discendente. Durante gli anni ’80, infatti, quando fu approvata la nuova legge sui patti agrari, il mercato vinicolo entrò in crisi cronica per il venir meno degli abituali acquirenti dei vini da taglio, non più richiesti dalle case produttrici di vino imbottigliato. Ciò determinò forti giacenze di vino invenduto nelle cantine sociali, nonostante l’avvio alla distillazione agevolata del prodotto fermo nei depositi. Risultato di quella situazione fu che i coloni rimasti, ormai avanti negli anni e sfiduciati per il ritardato pagamento delle uve conferite agli organismi cooperativi, cominciarono ad abbandonare la partita. La Comunità Europea, di fronte alla crisi irrimediabile del mercato vitivinicolo, fu indotta nel frattempo a introdurre drastiche misure per la riduzione del potenziale viticolo, quello meridionale in particolare, concedendo consistenti premi alla estirpazione dei vigneti, che nel solo Brindisino equivalse a 12 mila ettari, pari a circa due terzi dei vigneti esistenti, con pesanti riflessi negativi sul piano occupazionale e sull’economia di tutta la città capoluogo. Da allora, siamo negli anni ’80-’90 del secolo scorso, il paesaggio agrario tradizionale delle campagne brindisine è mutato profondamente. La scomparsa dei coloni, nella maggior parte dei casi, senza alcuna buonuscita per il rilascio delle quote coloniche, ebbe una profonda ripercussione sull'intero tessuto produttivo, costringendo i grandi concedenti, vissuti per secoli alle spalle del lavoro colonico, ad abbandonare anch’essi, dopo aver intascato i lauti premi all’estirpazione, anche quelli dei vigneti dei coloni. Si era così conclusa, ingloriosamente, l’annosa vicenda della colonia e di gran parte dei vigneti, eliminati, del territorio brindisino: quelle terre, mute testimoni per secoli delle fatiche e delle soverchierie subite dai coloni, da allora sono rimaste in parte abbandonate, in parte vendute, in parte utilizzate dai vecchi concedenti per impieghi meno impegnativi e redditizi.  

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