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Giovedì, 25 Aprile 2024
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A cura di Blog Collettivo

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Un Paese orfano di uomini di Stato e l'allegoria del potere di Mastroianni

I partiti non fanno più politica, la voce è flebile, forse un po’ amara. Politica si faceva nel ‘45, nel ‘48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare seppur diverse e dal proposito di assicurare il bene comune.

« I partiti non fanno più politica, la voce è flebile, forse un po’ amara. Politica si faceva nel ‘45, nel ‘48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare seppur diverse e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione che c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante: c’era soprattutto lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava.

Oggi i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia: i partiti sono divenuti macchine di potere e di clientela. Scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune.

La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”, I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal Governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse di partito.

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano.

Ecco perché i partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.». Accadde solo trentatré anni e quattro mesi fa: Eugenio Scalfari aveva fondato solo da 5 anni “ La Repubblica”, l’Italia aveva da poco respinto l’abrogazione della legge sull’aborto eppure continuava a votare la Democrazia Cristiana.

Nella stessa Sicilia quasi il 70% degli elettori aveva votato no al referendum contro l’abrogazione della Legge 194/78 sull’aborto eppure, dopo poche settimane, il 42% dei siciliani aveva votato un partito, quanto mai ecclesiastico e benedetto con l’acqua santa, come la Democrazia Cristiana: già allora eravamo un popolo di schizofrenici. L’Italia continuava a dormire nonostante il frastuono mediatico della P2. A qualcuno non andò giù quella strana espressione, mina vagante nella sua incauta semplicità: Enrico Berlinguer l’aveva chiamata questione morale.

“La questione morale era fatta di pure contrapposizioni verbali, nient’altro che vuota invettiva che interrompeva il riformismo dialogante con i partiti concorrenti”: l’inciucio a destra truccato di rosso poteva avere così inizio, la firma dell’editoriale pubblicato sull’Unità era di un certo Giorgio Napolitano. Quelle parole non furono mai comprese, troppo maleodoranti per una classe dirigente che ha sempre alzato la gonnellina. Dopo trentatré anni e quattro mesi ci ritroviamo a dover rispolverare quelle parole, orfani di uomini di Stato. Una buona parte della classe dirigente di questo paese è stata collaudata e immatricolata con avvisi di garanzia, condanne, prescrizioni da esibire con una certa arroganza come se la carcerazione abilitasse all’esercizio dell’attività politica.

Pur di apparire civile e garantista, pur di continuare ad entrare nelle chiese, la nostra farlocca modernità ci obbliga a riabilitare i condannati, ci obbliga a tender sempre la mano dalla parte dell’offensore: quest’ultimo non perderà mai occasione per camminare per strada con un rosario in mano, divulgare magari in televisione il suo pentimento, annunciando la imminente pubblicazione di un memoriale. Gli offesi vengono relegati in qualche trafiletto a fondo pagina dei giornali e quasi sempre non hanno alcuna seconda possibilità riabilitativa: dopo poco tempo tornano a vivere onestamente come banditi.

Abbiamo sviluppato lentamente una sorta di repulsione per quella classe dirigente, per quel potere che lancia pacche sulle spalle, complici sguardi a uomini oscuri e che continua a gioire mentre la parte incontaminata del paese arranca, si arrabbia dignitosamente, sopravvive. La credibilità delle istituzioni è sempre più affannata così come è arrugginita la loro autorevolezza, il loro ruolo guida. Suscita un certo scalpore leggere sui giornali delle dimissioni di Chris Huhne dall’incarico di ministro dell’ambiente del Regno Unito così come ne è ancora più eloquente la causale: menzogna su una multa per eccesso di velocità.

Quando verrà il giorno in cui questo paese proverà vergogna per tanti politicanti dal lessico depravato, dalla disinibita inciviltà e dalla ipertrofica disonestà? Sono passati appena trentatré anni e quattro mesi e si ha l’impressione che il passato abbia già disegnato il presente. Rivedo Montecitorio nel 1976, Marcello Mastroianni è un giornalista di Tg3 che insegue un ministro: il capolavoro di Ettore Scola si chiama “ Signori e Signore”.

“ Signor ministro è al corrente delle gravi accuse che le sono state mosse riguardo i fondi sottratti alle mense degli orfani per più di duecento miliardi di lire? Certo che ne sono al corrente. Crede lei, signor ministro, sia opportuno rassegnare le proprie dimissioni? Giovanotto, che storia è questa? Non mi dimetterò mai, questa sarebbe una mossa sbagliata e non perché le dimissioni potrebbero implicitamente suggellare le accuse nei miei confronti. Io non mi dimetto, giovanotto, perché altrimenti non potrei combattere la mia battaglia da una posizione di forza: dal mio posto posso agevolmente controllare l’inchiesta, inquinare le prove, corrompere i testimoni, insomma posso fuorviare il corso della giustizia”.

“Signor ministro, mi scusi, non crede tutto ciò sia irregolare, sia contra legem? E no, caro giovanotto, io rispetto la legge, la legge del più forte e siccome sono più forte in questo momento, è mio dovere rispettare la legge del più forte: sono in debito verso l’elettorato che mi ha votato per ottenere posti di lavoro, appalti, sgravi fiscali, distrazioni di fondi neri. Cosa crede giovanotto che l’elettorato, qualora avesse voluto un uomo probo, onesto, avrebbe scelto proprio me?”.

 

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