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Quando la Pizia donò la terra dei Brindisini

Allontanati da Sparta, i Parteni vanno a fondare una nuova colonia nella terra del fiume “Taranto”. Qui si scontrano con dei “Calabri di Brindisi” che si erano stanziati in riva allo Jonio. La seconda parte della ricostruzione storica di Nazareno Valente 

Il termine usato da Antioco per indicare l’esclusione che avevano dovuto subire i Parteni è «ἀτιμία» (atimìa), con cui si evidenziava genericamente la perdita dei diritti da parte del cittadino, ma che aveva un proprio significato ben più pregnante: era la sottrazione della «τιμή» (timè), vale a dire dell’onore che a Sparta era tenuto in grande considerazione. Una vera e propria forma di perdita di prestigio e di declassamento giuridico rispetto al gruppo di appartenenza, accentuata dall’essere identificati con un nome specifico, Parteni, che sottolineava l’origine del peccato commesso. In definitiva, una specie di “morte rituale” che s’aggiungeva alla privazione di parte dei diritti politici e civili ed ancor più difficile da sopportare, considerato che era una colpa ereditata dai padri oppure da una scelta fatta da altri che avevano previsto nascite non conseguenti ad unioni legittime e, in definitiva, macchiate da adulterio. 

Prima parte: Chi erano i Figli delle vergini

Comunque fosse, una riproduzione della stirpe in cui non avveniva tutto secondo le regole era a Sparta socialmente inconcepibile e precludeva l’accesso ai pieni diritti. Questo emerge a chiare lettera da una versione sempre un po’ trascurata, quella data da Giustino (II secolo d.C.?) nella sua epitome di Pompeo Trogo, in cui si sottolinea l’aspetto che evidenziava la gravita della trasgressione: le donne coinvolte nei rapporti promiscui erano in prevalenza sposate. Infatti ai giovani spartani ritornati in patria «fu permesso di congiungersi indifferentemente con tutte le donne» («promiscuos omnium fæminarum concubitus permisere») e non solo con le nubili. In aggiunta, per incentivare le nascita fu stabilito che fosse meglio «se ciascuna di loro fosse stata posseduta da più uomini» («si eam singulæ per plures viros experirentur»). La prole così concepita non aveva pertanto un padre e questo aveva pesato nella loro esclusione dalla cittadinanza e nella decisione di definirli Parteni «per la macchia subita dell’onore materno».

La cospirazione

Una situazione insostenibile che i Parteni ritennero di poter risolvere solo sovvertendo l’ordinamento politico allora vigente. Per quanto numerosi, non si sentirono di affrontare l’impresa da soli e, per questo, acquisirono l’appoggio degli Iloti con i quali, come racconta Eforo, «cospirarono contro i Lacedemoni» («ἐπεβούλευσαν τοῖς Λακεδαιμονίοις»). Il piano concordato era semplice e lineare. Prevedeva che la sollevazione avvenisse nel corso d’una manifestazione pubblica di largo seguito, in cui era possibile agire insieme senza dare nell’occhio ed avendo, in aggiunta, l’opportunità di eliminare in un colpo solo il maggior numero di avversari possibile. La scelta cadde sulle Giacinzie, una delle maggiori feste del calendario spartano, da essi giudicata l’occasione più propizia per agire. 

Anche nel caso del complotto, le nostre maggiori fonti, vale a dire i già ricordati Antioco ed Eforo, presentano versioni in buona parte discordanti ma più che altro nei dettagli. Per questo seguiremo quella di Antioco che, sebbene meno precisa nel suo dipanarsi, risulta più densa di particolari. Lo storico siracusano racconta che gli Spartani, avendo avuto sentore delle manovre sovversive, si servirono di infiltrati che, fingendosi amici dei Parteni, dovevano cercare di capire come stavano le cose. Tra questi viene compreso Falanto, futuro ecista e quindi capo della spedizione che avrebbe fondato Taranto, rappresentandolo, tuttavia, in maniera talmente ambigua da non far capire da quale parte egli stesse realmente: se con i Parteni o se con gli Spartiati. Certo è che i Parteni lo ritenevano un loro capo, mentre gli Spartiati un proprio infiltrato. In aggiunta, non si capisce neppure bene qual era la sua effettiva condizione sociale, vale a dire se fosse Spartiate, Partenio oppure Ilota. Per quanto le cose non siano del tutto chiare — ed a riguardo non ci soccorre neppure Eforo che non cita mai Falanto — è però possibile districarsi, se si semplifica riducendo la questione nei suoi aspetti più essenziali ricorrendo inoltre alla versione di Giustino che, peraltro, non parla di cospirazione da parte dei Parteni. 

Ebbene l’ecista era in genere di nobili natali e mai di condizione servile, come lo erano gli Iloti, oppure “senza onore” come erano considerati i Parteni; allo stesso tempo doveva essere ben accetto a chi intraprendeva la spedizione. Ne consegue che Falanto non poteva essere un Ilota o un Partenio ma, ciò nonostante, doveva essere gradito ad entrambi i due gruppi. Il che indurrebbe a credere — anche tenuto conto del ruolo rivestito nel complotto — che Falanto fosse uno Spartiate che, però, non avendo troppo spazio politico tra i pari rango, avesse fatto comunella con i Parteni per trovare la via più breve per arrivare al potere. In altre parole teneva i piedi in entrambe le staffe, e questa sua ambiguità di comportamento verrà confermata pure in un successivo episodio in cui ebbe a che fare con i Brindisini. A sentire, invece, Giustino, erano stati gli stessi Parteni a sceglierlo come guida «perché figlio di quell’Arato, che aveva avuto l’idea di rimandare i giovani spartani in patria per generare prole». E questo «per avere in lui il sostegno della loro speranza e della loro dignità, così come suo padre era stato un tempo la causa della loro nascita». Il che rafforza l’idea che Falanto fosse uno spartiate, considerato che era figlio di un personaggio così influente.
In ogni caso, i congiurati avevano pianificato ogni cosa stabilendo pure il momento esatto in cui passare all’azione. Era stato convenuto che la rivolta avrebbe avuto inizio mentre era in svolgimento la gara prevista nel corso delle Giacinzie, proprio ad un segnale di Falanto. In particolare, quando questi avesse messo in testa il berretto di pelle di cane che, come sappiamo, gli Iloti erano obbligati ad indossare. Questo perché, come precisa Antioco, i cittadini Spartani, «erano individuabili dalla chioma» («γνώριμοι δ᾽ ἦσαν ἀπὸ τῆς κόμης») ed il gesto serviva così anche per rendere riconoscibili coloro che dovevano essere colpiti e massacrati. Ora, la circostanza stessa che Falanto potesse partecipare alla festa, senza essere costretto a portare il cappello in testa, è un altro indizio evidente che egli era un cittadino a pieno titolo; in caso contrario non gli sarebbe stato consentito di rimanere a capo scoperto per gran parte dell’effettuazione della festa.

La congiura viene scoperta

Per sfortuna dei congiurati, i piani concordati erano stati nel frattempo svelati agli Spartiati che, messi sull’avviso, avevano predisposto le necessarie contromisure. Così, mentre stava per avere inizio la gara, un araldo si fece avanti ed intimò a Falanto di non mettersi il berretto, chiarendogli che gli Spartiati non sarebbero stati colti di sorpresa e che, anzi, avevano il controllo della situazione. A questo punto i Parteni, accortisi che le loro trame erano state scoperte, cercarono chi di fuggire, chi di domandare grazia. Stranamente, però, invece di essere passati per le armi, furono rincuorati e presi sotto custodia con la promessa che sarebbe stata trovata una soluzione.

In definitiva, la congiura fu bloccata sul suo nascere e tutto si svolse senza spargimento di sangue. Presto fu trovato pure un accordo, visto che i Parteni si persuasero a considerare l’evenienza «di partire per andare a fondare una colonia» («ἀποικίαν ἐξελθεῖν»), come riferito da Eforo. Il che, considerata l’indole bellicosa degli Spartani, è alquanto singolare che sia successo. Tuttavia le fonti, una volta tanto in sintonia, ci spiegano il perché di questa reazione benevola: i Parteni erano numerosi e, più di tutto, considerandosi tra loro fratelli, erano molto solidali. Ed era questa loro coesione a renderli assai temibili. In più, a detta di Diodoro Siculo, uno storico del I secolo a.C., essi contavano sull’appoggio degli Epeunatti, altra componente discriminata del mondo spartano.

Alla lettera il termine Epeunatti è traducibile con «quelli disposti sui giacigli nuziali»; nella sostanza indicava gli Iloti che, per sopperire alle gravi perdite subite nel corso della più volte citata prima guerra messenica, erano stati autorizzati a sposare le vedove degli Spartani caduti in battaglia, acquisendo in tal modo la cittadinanza. Sollevati quindi dalla condizione di iloti, ma comunque non del tutto integrati con il resto dei cittadini spartani, visto l’appellativo che serviva appunto a distinguerli. Diodoro aggiunge poi un altro dettaglio importante non riportato da altri autori. Narra infatti che la maggior parte degli Efori era inizialmente propensa ad adoperare le maniere forti, ritenendo che il tradimento di Falanto dovesse costargli la vita. Stavano ormai per decidere la sua uccisione quando ne furono dissuasi da un certo Agatiada, il quale — rivela l’autore siceliota — «era stato amante di Falanto» («ἐραστὴς αὐτοῦ γεγονὼς») e, non si sa se per amore o per convinzione, consigliò preferibile non farsi prendere troppo dal risentimento. Argomentò infatti che, adottando il pugno di ferro, si correva il rischio «di trascinare Sparta in un cruento conflitto civile, nel quale, se avessero prevalso, avrebbero ottenuto una inutile vittoria, mentre, se avessero perso, avrebbero causato la completa rovina della loro patria». In definitiva, suggerì che era meglio cercare un’intesa: l’araldo avrebbe proposto a Falanto di lasciar stare il cappello lì dove si trovava, e di venire a patti; poi si sarebbe fatto in modo di convincere i rivoltosi dal desistere dai loro intenti bellicosi e di disporsi piuttosto alla riconciliazione. 

I Parteni vengono convinti a fondare una colonia

E conciliazione fu; concordata, a detta di Eforo, su queste basi: i Parteni e gli altri rivoltosi sarebbero stati lasciati liberi di partire «per andare a fondare una colonia con l’esplicita intesa che, qualora avessero trovato un territorio sufficiente a sostenerli, avrebbero dovuto restare lì; in caso contrario, sarebbero potuti ritornare accontentandosi della quinta parte del territorio messenico appena conquistato». In pratica, gli Spartiati si dichiararono disponibili a farsi carico delle spese della prospettata avventura coloniale, purché i Parteni li liberassero della loro presenza e cercassero un possibile futuro altrove. In fondo niente di più usuale, considerato che molte delle colonie greche nacquero con i medesimi presupposti: la limitatezza delle risorse disponibili rendeva necessario che qualcuno abbandonasse la Grecia e cercasse fortuna da qualche altra parte del mondo conosciuto. In genere, salvo rare eccezioni, venivano costretti a migrare coloro che creavano maggiori problemi e che non rappresentavano certo la crema della cittadinanza.Tuttavia, una volta scelto d’andare altrove, occorreva stabilire dove. E qui veniva il difficile: oltre i confini della patria, c’era l’ignoto. Per chi viaggiava alla ricerca di nuove avventure, magari era proprio questo l’aspetto che più invogliava, ma così non era per chi voleva rifarsi una vita e cercava d’intraprendere il viaggio contando su maggiori sicurezze. Per questo, in simili circostanze, si ricorreva all’aiuto divino che, nella fattispecie, aveva le sembianze di Apollo Pitico che, a richiesta e per il tramite di un suo incaricato, la Pizia, forniva sempre i consigli giusti. 

Chi aveva una domanda in apparenza senza risposta, o desiderava sapere cosa era meglio fare in una circostanza non facile da gestire oppure avere indicazioni su dove si trovava la sua specifica terra promessa, ebbene tutti costoro si rivolgevano al santuario di Delfi — non per niente ritenuto l’ombelico del mondo — chiedendo consiglio sulla decisione da prendere. Le richieste erano talmente tante che c’era una scrematura iniziale per stabilire l’urgenza e, visto che la domanda di vaticini continuava a lievitare, la Pizia s’era pure fatta in tre, nel senso che, non bastandone una sola, Apollo s’era scelto ben tre intermediare che comunicavano agli interessati il suo responso divino. Passata la fase preliminare, c’era il momento dell’oblazione che precedeva il consulto: invece che con il piattino, gli incaricati del dio passavano con una capra che veniva sacrificata alla divinità, ovviamente a spese del richiedente; poi c’era da fare un’altra offerta che, sebbene libera, doveva essere adeguatamente generosa, se non si voleva correre il rischio di rendere i tempi d’attesa ancor più lunghi del previsto. In pratica bisognava penare un bel po’, ma alla fine tutti si dichiaravano soddisfatti, perché i responsi, una volta capiti, risolvevano il problema posto. Per questo la fama e la sacralità del santuario era in un trend costantemente positivo. 

La Pizia dà il suo responso

L’aspetto in genere poco conosciuto è che, malgrado tutte le apparenze e le messinscene, c’era ben poco di divino in tutto quell’apparato e le risposte non erano confezionate da Apollo ma da un database ante litteram ricchissimo di dati e tenuto regolarmente aggiornato. Non a caso, allo scopo, il santuario di Delfi s’era dotato d’un nutrito gruppo di fidati emissari, incaricati di viaggiare in ogni dove per recuperare le più svariate informazioni. Come dire che già tremila anni fa qualcuno aveva capito che l’informazione è potere. Quando così Falanto si presentò alla Pizia chiedendo il suo divino responso sul luogo più conveniente per la futura colonia, questa sapeva con che tipi aveva a che fare e quale parte del mondo poteva essere la più congeniale ai loro interessi. In effetti la Pizia non valutò solo gli interessi dei Parteni, ma tenne in gran conto principalmente i desiderata degli Spartiati che, per l’appunto, s’erano fatti carico della spesa della capra, dell’offerta libera e, con ogni probabilità, anche d’una generosa integrazione. Il problema fondamentale è che i Lacedemoni erano abituati a colonizzare regioni della Grecia — com’era infatti avvenuto con la Laconia e la Messenia — non di andare in giro per il mondo sconosciuto. Per questo gli Spartiati, temendo che Falanto avrebbe magari preferito di rimanere nelle vicinanze, s’erano garantiti che, nel caso, la Pizia lo dissuadesse. Così quando l’incaricato dei Parteni le chiese se il dio era disposto a concedere la regione di Sicione che si trova nel Peloponneso, la Pizia così rispose: «è bello il territorio tra Corinto e Sicione ma non lo abiterai, neppure se tu fossi completamente rivestito “tutto di bronzo» («καλόν τοι τὸ μεταξὺ Κορίνθου καὶ Σικυῶνος·/ἀλλ' οὐκ οἰκήσεις οὐδ' εἰ παγχάλκεος εἴης»). Che era come dire che era meglio togliersi dalla testa un’idea simile perché, anche se rivestito della panoplia dell’oplita, e quindi con un’azione di forza, non sarebbe comunque riuscito a stabilirsi in quella regione. Faceva quindi meglio a volgere gli sguardi verso Satyrion (attuale capo Saturo), ai flutti luccicanti del fiume Taranto ed al suo porto, precisando, a scanso di equivoci, pure la zona specifica d’insediamento: «dove un capro accoglie con gioia l’onda salata, inumidendosi la punta del grigio mento, lì costruisci Taranto a nord Di Satyrion». Poi ribadì perentoria: «io ti dono Satyrion e la ricca terra di Taranto da abitare e pene arrecherai agli Iapigi» («Σατύριόν τοι ἔδωκα Τάραντά τε πίονα δῆμον/οἰκῆσαι καὶ πήματ' Ἰαπύγεσσι γενέσθαι»).

La Pizia del tempio di Apollo a Delfi-2

Così Falanto ed i futuri Tarantini appresero il volere del dio. In altre parole i Parteni dovevano tenersi il più lontano possibile da Sparta — con grande soddisfazione degli Spartiati — attraversare il mare e prendere possesso della terra degli Iapigi che confinava con le colonie achee. In questo modo avrebbero potuto dare pure una mano agli Achei; alimentare le loro mire espansionistiche e, al tempo stesso, colonizzare le terre vicine. Il che fa sospettare che, oltre agli Spartiati, anche gli Achei avessero messo mano ai portafogli per rendere il vaticinio confacente pure ai loro interessi. Sicché la Pizia rese contenti tutti: Parteni, Spartiati, Achei. Salvo naturalmente gli Iapigi, che battagliavano con gli Achei, ed i Calabri di Brindisi, da secoli legittimi possessori di buona parte del territorio destinato dalla Pizia alla futura colonia tarantina. Infatti quelle contrade erano terra brindisina, come ci fa sapere Strabone raccontando che Brindisi, quand’era «governata dai re, si vide togliere gran parte del suo territorio dai Lacedemoni guidati da Falanto». 

I Parteni sbarcano dalle nostre parti

Sui primi rapporti tra coloni ed indigeni, possediamo solo qualche succinto ragguaglio. Antioco, che occorre ricordarlo, è fonte filotarantina e, quindi, più vicino ad una visione ellenocentrica, ci riferisce che i Parteni andarono dunque con Falanto e furono accolti normalmente dai barbari. Quindi, a suo dire, i nuovi arrivati non crearono apparenti problemi alle popolazioni locali. Ben diversa, e certamente più in linea con la realtà, la posizione di Eforo il quale narra che i Parteni «trovarono sul posto gli Achei che stavano combattendo con i barbari e, dopo aver condiviso con essi i rischi ed i risultati della guerra, fondarono Taranto». Lasciando pertanto chiaramente capire che fecero lega con gli Achei per sconfiggere i locali e cacciarli dalle loro terre, con l’intento poi di dividersele. 

L’arrivo non è amichevole neppure nella versione di Pausania (II secolo d.C.), il quale sull’evento divulga una storia legata ai miti religiosi. Ci fa infatti sapere che Falanto, approdato dalle parti di Taranto, ebbe ragione dei barbari solo dopo vari tentativi, quando seppe finalmente decifrare il vaticinio della Pizia nel modo corretto. In pratica anche in questa versione i Tarantini non si presentarono con il ramoscello d’ulivo in mano. Nello stesso senso, si esprime infine Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.) il quale narra che, appena giunti fecero guerra agli Iapigi fondando la città di Taranto che prese nome da un fiume. 
Ora questi Iapigi o barbari, a seconda della sensibilità dell’autore, erano appunto Calabri di Brindisi, stanziatisi nei dintorni di Taranto. Di loro resta qualche traccia, soprattutto del gruppo insediatosi sul promontorio dell’allora penisola posta tra il Mar Grande e il Mar Piccolo, nell’odierna Taranto Città Vecchia, che forse presidiava l’approdo. Non si sa se fu l’ultimo nucleo della resistenza, ma di certo fu spazzato via dai nuovi arrivati. 

In fondo, di là dalle romanticherie di maniera, la colonizzazione era fondamentalmente finalizzata ad appropriarsi della terra e delle risorse altrui. Eventi questi non certo indolori per chi doveva subirli e che comportava la cacciata dei precedenti possessori. Una cosa del genere avveniva, quando andava di lusso; nella peggiore delle ipotesi, gli indigeni erano uccisi oppure resi schiavi. Anche se rimane sempre taciuto nelle tradizioni letterarie sulle fondazioni coloniali greche, nella realtà il santuario di Delfi svolgeva una funzione organizzativa e di indirizzo imprescindibili per questo tipo di avventure. La Pizia con il suo vaticinio, più che rivelare il futuro, lo imponeva a chi, in un modo o in un altro, era costretto a cercare fortuna al di fuori del suolo patrio. Senza i buoni uffici del santuario non si poteva neppure pensare d’intraprendere il viaggio, per il semplice motivo che non si sarebbe saputo dove andare. La destinazione era infatti scelta da Apollo che, in tal modo, attuava un ruolo normalizzatore degli insediamenti, che teneva solo in parte conto dei desideri dei coloni. 

Moneta Tarantina con Falanto-2

Le fondazioni coloniali risolvevano per lo più i conflitti sociali che si creavano all’interno delle poleis e andavano, per questo motivo, gestite e pianificate da un’entità al di sopra delle parti per evitare che le situazioni conflittuali non fossero poi esportate altrove. Altro aspetto spesso nascosto è che le avventure coloniali erano in genere riconducibili a fenomeni di discriminazione e di esclusione di persone poco gradite o addirittura scomode che, magari, non riuscivano a conformarsi ai canoni civili vigenti. E in tale ambito s’inseriva di fatto la spedizione che Falanto aveva il compito di guidare. Dopo la congiura ordita, i Parteni non potevano avere più spazio a Sparta e dovevano, con la benedizione degli Spartiati, cercarsi per forza un futuro altrove. Di là dalle frasi di circostanza, e dalla promessa che, se non avessero trovato un posto soddisfacente, sarebbe stata trovata un’altra soluzione, i Parteni sapevano che il loro viaggio non aveva grandi possibilità d’un ritorno e che dovevano giocarsi bene l’occasione loro offerta. Tutto questo li rendeva ancor più determinati di quanto già di solito non fossero e, in definitiva, estremamente pericolosi per chi occupava la terra destinata loro dalla Pizia. In altre parole, i Calabri di Brindisi, dislocati in quella che sarebbe diventata Taranto, non potevano imbattersi in colonizzatori peggiori: frustrati com’erano nelle loro aspirazioni, agguerriti come pochi e, in aggiunta, privi di qualsiasi scrupolo. 

Già ce n’era a sufficienza per rendere disperata la situazione dei nostri concittadini, pur tuttavia alla fin fine furono altre le circostanze che giocarono a loro sfavore. Per quel poco che è dato di sapere, gli insediamenti brindisini nel tarantino erano composti da piccoli nuclei sparsi sulle zone di pianura, privi per lo più d’ogni forma di difesa. Solo sulle alture c’era una certa concentrazione che forniva qualche possibilità di resistenza ma, in ogni caso, non sufficiente a sostenere l’impatto dei Parteni. Ad un fronte di resistenza del tutto sfilacciato, si contrapponeva la compattezza dello schieramento lacedemone che cercava di sfruttare l’effetto sorpresa, contando appunto sull’impreparazione degli avversari per risolvere la pratica in poco tempo. Faceva infatti parte delle regole auree di ogni impresa coloniale quella d’imporsi all’avversario sin dalle prime battute e d’impadronirsi subito, con la forza delle armi, dello spazio su cui stabilirsi. Questo primo nucleo insediativo avrebbe consentito di difendersi da eventuali contrattacchi e di fungere con l’andare del tempo da base logistica per estendere il territorio della colonia. È quanto ci fa sapere lo storico Tucidide (V secolo a.C. – IV secolo a.C.) facendo dire a Nicia, impegnato nell’impresa poi fallita della spedizione in Sicilia, che una delle condizioni essenziali per il successo era proprio la rapidità con cui ci s’imponeva agli avversari. Rapidità che non fece difetto ai nuovi venuti.

(2 – continua)

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