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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Abusi sessuali al lavoro: prescrizione

BRINDISI - Al di là della rigorosa cronaca dei fatti, val la pena premettere che è questo uno dei casi in cui se vi fosse una vittima nelle stesse condizioni preferirebbe probabilmente continuare a subire piuttosto che denunciare. Strani meccanismi della giustizia.

BRINDISI - Al di là della rigorosa cronaca dei fatti, val la pena premettere che è questo uno dei casi in cui se vi fosse una vittima nelle stesse condizioni preferirebbe probabilmente continuare a subire piuttosto che denunciare. Strani meccanismi della giustizia, infatti, hanno condotto un processo per violenza sessuale avviato da una denuncia nel 2002 a giungere a sentenza di primo grado nel maggio del 2012, dieci anni dopo. Cosa è accaduto poi?

Che in Appello, qualche giorno fa, l’accusa di violenza sessuale continuata (per cui v’era stata condanna a due anni in primo grado) è stata derubricata in tentata e quindi il reato è andato prescritto. Sì, prescritto. Non doversi procedere per l’imputato, un anziano proprietario di supermercati a Brindisi che avrebbe palpeggiato sul seno, avrebbe afferrato la mano di una dipendente per metterla sui genitali, nel retrobottega del negozio. E avrebbe anche fatto di tutto per baciarla. Il tutto sotto il ricatto della perdita del posto di lavoro.

Condotte confermate da altre lavoratrici che avevano patito trattamenti simili, per quanto meno gravi. I fatti. Il 23 marzo del 2002, quindi dopo l’ultimo episodio, la giovane commessa corre in questura a Brindisi e presenta querela contro il proprietario del supermarket per il quale prestava servizio. Racconta di aver iniziato l’attività lavorativa nel 1999, in nero per un anno, in qualità di addetta alla sistemazione delle merci. Il rapporto professionale si interrompe per motivi personali della donna, ma nel 2001 la figlia del titolare le propone un contrattino, approfittando di finanziamenti regionali.

La ragazza accetta, con lo stesso incarico che le era stato assegnato in precedenza. Dopo l’assunzione, riferisce, di aver subito un primo approccio di natura sessuale dal datore di lavoro. Proprio per la sua mansione, è costretta a trascorrere molto tempo in magazzino da sola, non a contatto con i clienti o con i colleghi. Nell’agosto del 2001, si legge nella denuncia querela viene raggiunta dall’uomo che le si avvicina, le palpa il seno, le tocca le parti intime, tenta di baciarla e le prende la mano per appoggiarla sui propri genitali.

Lei reagisce in maniera composta, allontanandosi, facendo intendere di non gradire, ma continuando nelle proprie faccende, tanto per non rischiare di venire licenziata in tronco. Il titolare sembra desistere, ma non è così. Nel novembre del 2001 ci riprova, ottiene un rifiuto meno educato stavolta, e minaccia: “se parli perdi il posto”.

Gli atteggiamenti, stando al racconto fatto dalla vittima nella sua denuncia e in aula, durante il processo di primo grado, non cessano con quella brusca reazione. Fino al marzo 2002 quando la donna, ritenuta assolutamente attendibile dal Tribunale di Brindisi per la precisione delle sue ricostruzioni oltre che in considerazione delle altre testimonianze, si trova nell’antibagno del locale e viene ancora una volta importunata.

Si lamenta con un collega, ne parla con famigliari dell’uomo, coinvolti nella conduzione del supermercato, che le chiedono il riserbo sui fatti accaduti. Inevitabilmente i buoni rapporti professionali si incrinano, la giovane resta disoccupata e spiega tutto alla polizia. Il rinvio a giudizio arriva però nel 2009, sette anni dopo. Il processo inizia il 18 novembre dello stesso anno. La vittima si costituisce parte civile con l’avvocato Raffaele Missere, viene ascoltata la prima volta il 15 luglio del 2010. L’ultimo testimone depone il 30 giugno 2011.

Camera di consiglio e sentenza il primo marzo 2012. L’uomo, imputato di violenza sessuale continuata per “avere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, con violenza e minacce, costretto la donna a subire atti sessuali toccandola ripetutamente nelle parti intime”. Alla parte civile viene concesso anche un risarcimento di 10mila euro.

Si va in secondo grado. La Corte d’Appello ritiene che l’accusa di violenza sessuale continuata sia eccessiva e la trasforma in “tentata”: il reato è estinto, c’è prescrizione. Viene emessa sentenza di non luogo a procedere perché è trascorso troppo tempo dai fatti. La donna aveva denunciato seduta stante. Ha dovuto con fatica parlare di questioni intime, imbarazzanti, forse anche umilianti. Ha scelto di farlo senza paura, dovendo rispondere alle domande di accusa e difesa in un’aula del tribunale.

Magari (e non v’è stata occasione perché l’imputato era assente) dovendo affrontare lo sguardo di colui il quale le aveva procurato ansie, aveva minato la sua serenità. Superando il timore di chi va a denunciare il proprio datore di lavoro e contempla il rischio, perché il rischio c’è, che l’onta le impedisca di trovare altro impiego. Ci sono voluti due lustri per arrivare a un pronunciamento: non una condanna, non un’assoluzione.

Non un verdetto nel merito della vicenda ma, udite udite, la prescrizione per una contestazione così grave. Se tornasse indietro, forse, la commessa ci penserebbe mille volte prima di correre in questura. E come lei tutte le vittime, le donne che si tenta di proteggere con norme più rigide per sanzionare maltrattamenti, botte e persecuzioni, ma che non sempre vengono tutelate se il sistema giustizia finisce per incagliarsi in lungaggini difficilmente spiegabili.

 

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