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Venerdì, 26 Aprile 2024
Cronaca

Abusi sessuali su due coetanee, quattro in bilico tra processo e messa alla prova

BRINDISI - Furono arrestati il 19 dicembre del 2009 con l’accusa di aver violentato due coetanee, ragazzine nate e cresciute come loro nel Paradiso, quartiere di periferia del capoluogo brindisino. I quattro bulli per i quali il pubblico ministero Carmen Carbonara ha chiesto il rinvio a giudizio per violenza sessuale aggravata continuata in concorso ai danni di due tredicenni, sono comparsi questa mattina di fronte al giudice del tribunale dei minori di Lecce Aristodemo Inguscio che ha rimandato ogni decisione in merito alla richiesta del pm al 5 giugno: in quella data il gup deciderà se accogliere l’istanza della accusa oppure la richiesta avanzata questa mattina stessa dal collegio difensivo composto dalle avvocatesse Paola Giurgola, Daniela D’Amuri e Giampaola Gambino, che per i giovani assistiti hanno chiesto la misura alternativa della messa alla prova.

BRINDISI - Furono arrestati il 19 dicembre del 2009 con l’accusa di aver violentato due coetanee, ragazzine nate e cresciute come loro nel Paradiso, quartiere di periferia del capoluogo brindisino. I quattro bulli per i quali il pubblico ministero Carmen Carbonara ha chiesto il rinvio a giudizio per violenza sessuale aggravata continuata in concorso ai danni di due tredicenni, sono comparsi questa mattina di fronte al giudice del tribunale dei minori di Lecce Aristodemo Inguscio che ha rimandato ogni decisione in merito alla richiesta del pm a giugno: in quella data il gup deciderà se accogliere l’istanza della accusa oppure la richiesta avanzata questa mattina stessa dal collegio difensivo composto dalle avvocatesse Paola Giurgola, Daniela D’Amuri e Giampaola Gambino, che per i giovani assistiti hanno chiesto la misura alternativa della messa alla prova.

Se il giudice accoglierà la richiesta della difesa, il processo sarà sospeso e i giovani imputati affidati ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia che, anche in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, svolgeranno le attività previste di osservazione, sostegno e controllo. L’elaborazione del progetto di messa alla prova sarà affidato ai servizi sociali, ma deve essere necessariamente accettato e condiviso dai destinatari. La ratio dell’istituto concepito nel 1988 è che in una personalità in crescita, quale è quella del minorenne, il singolo atto trasgressivo non può essere considerato indicativo di una scelta di vita deviante. La messa alla prova punta quindi a non interrompere i processi di crescita, puntando al recupero sociale, considerato più probabile nel contesto sociale e familiare.

Recupero che non può che prendere le mosse dalla consapevolezza dell’errore commesso, di cui almeno tre su quattro non seppero certamente dare prova nel corso dell’interrogatorio di garanzia a caldo dell’arresto. Incrollabili, sicuri di sé: “Nui simu masculi”, avevano ribadito più di una volta nel corso dell’interrogatorio di garanzia di fronte al giudice per le indagini preliminari Addolorata Colluto, mentre cadevano continuamente in contraddizione intorno a più di un dettaglio. Sicumera senza pentimento per tutti tranne uno, il più grande dei quattro, che scoppiò in un pianto dirotto: germe di consapevolezza del male fatto alle due piccole vittime? Tanto la pm Simona Filoni quanto la gip registrarono nei ragazzini nessuna consapevolezza del bene e del male, nessuna capacità di riconoscere la sofferenza arrecata, come se le prestazioni sessuali pretese a botta di minacce, percosse e persecuzioni, facesse parte del ruolo, per diritto naturale.

Alla logica primitiva che aveva mosso il branco, era seguita come diretta conseguenza, una sorta di ribellione per l’ingiustizia subita: perché fossero stati relegati in carcere insomma, non lo sapevano, né lo capivano. L’incalzante interrogatorio da parte dei magistrati della procura minorile aveva fatto breccia solo nella coscienza di uno dei quattro, il maggiore, l’unico che parlò a testa bassa, ammettendo almeno in parte, prendendo consapevolezza del danno arrecato, forse irreversibilmente alle due ragazzine. Gli altri, tutti e tre gli altri, no. Se violenza c’è stata, come testimoniano gli svenimenti in classe, gli attacchi di panico, l’incupimento improvviso e le angosce delle vittime, loro non lo sanno.

Le ragazzine invece, che si sono tenute per mesi e mesi stretto nel petto il segreto angoscioso, sapevano bene a cosa andavano incontro rivelandolo, ribellandosi. Non è un caso che abbiano subìto e taciuto per mesi, fino a quando una prof lungimirante e attenta non ha dimostrato loro che la gogna del giudizio ancestrale contro Eva, non sarebbe caduta indistintamente, che qualcuno su cui poter contare, c’era e ci sarebbe sempre stato. Che in nome della libertà loro e di tutte le potenziali vittime future, denunciare diventava necessità non più rinviabile. Hanno preso il coraggio a due mani e hanno parlato. Per loro stesse e per tutte le bambine del quartiere.

Se qualcosa sia cambiato da allora, nella coscienza dei giovani responsabili dei fatti  – qualcuno di loro è nel frattempo divenuto maggiorenne – oppure no, sarà il giudice a deciderlo, concedendo o meno un’altra possibilità di riscatto. L’ultima.

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