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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca

Nelle carte del processo Tecnova un racconto da incubo: "Noi, trattati da schiavi"

Dieci dei quindici imputati nel procedimento 'Tecnova' che si è curato di manodopera sfruttata nel fotovoltaico rispondono di riduzione in schiavitù, delitto orrendo che è punito con la reclusione fino a vent'anni.

E’ una ricostruzione dell’accusa, ma pur sempre il racconto di un incubo durato a lungo. E' solo un capo di imputazione, una decina di righe dal registro formale, tutt'altro che asettiche per quel che narrano. Dieci dei quindici imputati nel procedimento ‘Tecnova’ che si è curato di manodopera sfruttata nel fotovoltaico rispondono di riduzione in schiavitù, delitto orrendo che è punito con la reclusione fino a vent’anni. Sono quasi tutti stranieri, alcuni irreperibili, altri risiedono nel Brindisino e nel Lecce. E avrebbero trattato da animali da soma un esercito composto da almeno 483 disperati, quasi tutti africani, mossi dalla necessità di mantenersi in Italia e animati dalla speranza di ottenere il permesso di soggiorno.

Un campo fotovoltaico Tecnova allagatoCostoro avrebbero: “ridotto e mantenuto in stato di servitù numerosi cittadini in massima parte stranieri (indicati come parti offese, ndr) provenienti da Guinea, Marocco, Senegal, Tunisia e altri Paesi extracomunitari, irregolarmente presenti nel territorio dello Stato e privi di permesso di soggiorno, assunti irregolarmente quali lavoratori per l’installazione di impianti fotovoltaici, avendoli ridotti e mantenuti in stato di soggezione mediante approfittamento della loro situazione di necessità per la quale avevano bisogno di lavorare e guadagnare il minimo necessario per il proprio sostentamento, facendoli lavorare nei cantieri di Collepasso, Francavilla Fontana, Galatina, Nardò, San Pancrazio Salentino e altri pressoché ininterrottamente e senza turni di riposo e costringendoli a prestazioni lavorative in condizioni inumane, degradanti e stressanti che ne comportavano lo sfruttamento con condotte gravemente vessatorie e con l’implicita minaccia di perdita del posto di lavoro qualora avessero protestato, come episodi già avvenuti lasciavano agevolmente intendere.

In particolare: sottoponendoli a turni di lavoro massacranti, di dodici e più ore al giorno, con solo due brevi pause, una di mezz’ora e l’altra di un’ora, anche il sabato fino a sera e i gironi festivi senza alcun giorno di riposo, facendoli lavorare anche in orario serale e al buio anche in giornate di pioggia torrenziale, costringendoli a trasporti gravosissimi di materiali pesanti e a trascinarsi nel fango nei giorni di pioggia, senza occuparsi di chi cadeva trascindandosi nel fango e degli infortuni che si verificavano, non consentendo che gli infortunati protestassero, minacciandoli di non parlarne con alcuno e, in caso di protesta, licenziandoli in tronco; prelevandoli ogni mattina verso le sei in luoghi prefissati e riaccompagnandoveli a fine giornata, con modalità da caporalato, mentre solo piccoli gruppi erano autorizzati a usare l’autovettura; privandoli della retribuzione dovuta e anche di una retribuzione idonea a garantirne la sopravvivenza in condizioni umane dando loro solo poche centinaia di euro al mese contrariamente a quanto apparentemente indicato nelle buste paga che talvolta non venivano consegnate o che i lavoratori venivano costretti a sottoscrivere, mentre gli orari di lavoro non venivano affatto documentati e corrispondendo, comunque retribuzioni inferiori a quelle risultanti dai propositi di paga”.

E’ stata una scelta coraggiosa quella del pm della Dda, Alessio Coccioli, quella di continuare a puntare sulla riduzione in schiavitù come contestazione, nonostante il Riesame e la Cassazione avessero annullato sul punto le ordinanze di custodia cautelare eseguite nell’aprile 2011.

L’udienza preliminare si celebrerà il 17 dicembre prossimo dinanzi al gup Giovanni Gallo, oltre all’associazione per delinquere sono contestati a vario titolo altri reati: l’aver favorito la permanenza irregolare in Italia di stranieri occupandoli alle dipendenze dell’impresa e consentendo loro di svolgere sia pure in condizioni di asservimento, un’attività che fornisse loro i mezzi minimi di sussistenza. Ne rispondono, fra gli imputati italiani, Marco Damiano Bagnulo e Cosima De Michele, entrambi di Brindisi (difesi dall’avvocato Fabio Di Bello) titolari dello studio B.D. Consulting Firm che “avviava alla Tecnova i lavoratori stranieri sotto indicati privi di permesso di soggiorno”, Manuel Costabile (difesa dall’avvocato Ladislao Massari), quale responsabile amministrativa della Tecnova Italia, Anna Maria Bonetti e Tatiana Tedesco, segretarie dipendenti dell’ufficio di Brindisi (difese all’avvocato Gianvito Lillo).

Il pm Alessio CoccioliAlcuni di essi rispondono anche di aver modificare le buste paga per non versare i contributi. Altri ancora di estorsione aggravata per aver incassato un ingiusto profitto conseguente alla corresponsione ai lavoratori di retribuzioni misere. Sono 483 le parti offese, tutti ragazzi stranieri che di tanto in tanto si danno appuntamento dinanzi al Tribunale di Brindisi e che sono stati anche ricevuti dal giudice civile che segue il fallimento di Tecnova. Uno degli ultimi sit-in il 31 marzo 2014. Tecnova nel 2011 chiuse i battenti lasciando circa 700 lavoratori senza Tfr e senza stipendi. Quasi tutti hanno diritto ad avere le somme previste dal trattamento di fine rapporto, ma probabilmente verrà loro concesso ben poco rispetto a richiesto.

Si potranno costituire però tutti parte civile nel processo, sperando di ottenere dal giudice il riconoscimento di un risarcimento del danno che li ripaghi di mesi di fatiche disumane sostenute nelle distese di silicio. Che abbiano sudato in condizioni da lager, non c’è alcun dubbio. Che si giunga o meno ad attribuire a qualcuno le responsabilità di quel che è accaduto quaggiù, a un passo dalle nostre tiepide case, che si riesca a rintracciare chi è svanito nel nulla, l’esperienza in terra di Puglia degli “schiavi” del fotovoltaico, reclama giustizia. 

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