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Cronaca

Calvario e morte fra diagnosi e terapie controverse: nuove indagini

Prima osteoporosi, poi tubercolosi ossea, poi brucellosi. Il gip non archivia il caso di Antonia Palazzo, di Veglie, spirata nel 2013: necessaria una perizia come richiesto dal legale famiglia“

LECCE – Un calvario di anni. Uno slalom gigante fra visite e diagnosi, ambulatori medici, strutture pubbliche e private, ricoveri, dimissioni e nuovi ricoveri anche a distanza di poco tempo. E tutto per ricavarne referti spesso in contrasto fra loro. Osteoporosi; no, tubercolosi ossea; ma no, brucellosi. E poi, farmaci iosa. Una giungla di etichette. Medrol e Forsteo, Tachipirina e Plaquenil, Airtal e Urbason, Niklod e Tralodie, Orotre e Dibase. Più qualche bustina della panacea Oki, all’occorrenza.

Antonia Palazzo si spense il 28 agosto del 2013. Aveva 69 anni. Era di Veglie. La vicenda è poco nota anche perché risale a due anni dopo la denuncia per cercare di fare luce su possibili responsabilità per non aver individuato subito la radice del problema. E’ stata presentata nel giugno del 2015, per il semplice motivo che, per ricostruire le vicissitudini con una precisione (è il caso di dire) chirurgica, è occorso tempo per raccogliere decine di cartelle cliniche e riannodare i fili di una complessa sequenza temporale.L'ospedale Vito Fazzi di Lecce

E’ stato necessario, cioè, ricostruire la storia in modo che potesse fornire un quadro d’insieme quanto più razionale e logico, senza lasciare nulla d’intentato. Perché l’evoluzione di un caso non sempre è nitida e lineare.

Il pubblico ministero Massimiliano Carducci, però, nei giorni scorsi aveva chiesto l’archiviazione del caso, ravvisando in sostanza la genericità dei fatti descritti e non ritenendo ammissibile una consulenza tecnica, peraltro a notevole distanza di tempo. Nella denuncia a carico di ignoti e che per ora resta tale, sarebbe a suo avviso difficile ritrovare una notizia di reato “ben delineata”. Di tutt’altro avviso il legale della famiglia, l’avvocato Rocco Vincenti, il quale ritiene invece assolutamente necessaria la perizia per chiarire quattro punti in particolare.

Il primo: se la diagnosi di osteoporosi, più volte ribadita in origine, avesse qualche fondamento oppure si fosse trattato di un grave errore diagnostico, a fronte delle successive risultanze di una densitometria ossea. Il secondo: se i sintomi lamentati da tempo dalla donna (crolli vertebrali, calo di peso, febbre e inappetenza), avrebbero dovuto indurre i sanitari a verificare anche la presenza della brucellosi, la malattia che sarebbe stata la vera causa del decesso.

Il terzo: se una tempestiva diagnosi di brucellosi avrebbe suggerito un approccio terapeutico diverso. Il quarto e ultimo: se un’altra diagnosi, quella di tubercolosi ossea (che fu effettata presso il “Perrino” di Brindisi, per essere poco dopo sconfessata dai sanitari del “Vito Fazzi” di Lecce durante l’ultimo, ormai inutile, ricovero), con la terapia conseguente, abbia inciso in maniera determinante nell’esito nefasto.

Il gip Giovanni Gallo, chiamato a fornire un parere, con un provvedimento datato venerdì 4 febbraio, ha rigettato la richiesta di archiviazione e disposto nuove indagini. Una proroga di quattro mesi durante la quale dovrà essere svolta la tanto richiesta consulenza tecnica in grado di stabilire se realmente vi siano profili di colpa e un nesso di casualità tra le condotte dei sanitari e la morte di Antonia Palazzo.

Per i congiunti della donna, che chiedono verità e chiarezza, un piccolo punto a favore. E, in generale, una vicenda che riaccende per l’ennesima volta i riflettori sulle possibili disfunzioni e contraddizioni di una sanità già nell’occhio del ciclone, fra discusso piano di riordino e altre vicende che investono la qualità del servizio reso alla comunità.

I PRIMI PROBLEMI: ANNO 2009 

Per riassumere il fatto, riproporremo le parti principali del precedente articolo. Era, dunque, il marzo del 2009, quando, lamentando forti dolori, la donna si sottopose ad alcuni accertamenti. Un medico chirurgo specializzato in cardiologia stilò una prima diagnosi per “cardiopatia ipertensiva, versamento pericardico”. Il problema fu individuato con un ecocardiogramma. Si aggiunse a questo un quadro di “broncopatia cronica”. Fu consigliata una terapia a base di vari farmaci.

Il 7 maggio del 2009, su richiesta del medico di base, la donna fu ricoverata presso il reparto di Ortopedia e traumatologia dell’ospedale di Copertino per “edema diffuso in cardiopatia ipertensiva, flemmone della natica, dorsombalgia”. Cominciò anche ad avere linee di febbre, proprio nel corso del ricovero, ma dopo vari accertamenti fu dimessa nell’arco di cinque giorni con la diagnosi di “crollo osteoporotico di L3” (che indica una vertebra, Ndr) e “ascesso al gluteo sinistro”. Tuttavia, a breve distanza, il 5 giugno, la donna tornò al pronto soccorso del “San Giuseppe” di Copertino, dove i sanitari la dimisero in capo a un paio di ore con una diagnosi di “flemmone regionale parasacrale destra”.

IL PEGGIORAMENTO: ANNO 2012

Nei due anni seguenti la paziente di Veglie continuò a seguire la terapia indicata, pur rivolgendosi ad altri medici. Sembra, infatti, che i sintomi iniziali stessero peggiorando. L’8 febbraio del 2012, tra forti dolori alla schiena, febbre e inappetenza, si rivolse a una specialista in reumatologia, che, diagnosticando una “forte osteoporosi con crolli vertebrali multipli”, consigliò una risonanza del dorso lombare ed esami di laboratorio, prescrivendole anche farmaci per la cura dell’osteoporosi, un antipiretico per la febbre e un ciclo di chinesiterapia.

Poiché non vi sarebbero stati miglioramenti apprezzabili, il 21 marzo del 2012 la donna ricorse a un poliambulatorio privato dove un reumatologo, dopo aver esaminato i risultati degli esami di laboratorio e in seguito a una visita, parlò di “distiroidismo, sindrome di Sjogren, iperuricemia, pregressa tubercolosi e osteoporosi”. Le consigliò una densitometria ossea femorale, esame mai svolto fino a quel momento, indicando di proseguire con i farmaci terapeutici per osteoporosi.

Il 28 maggio del 2012 presso uno studio radiologico la paziente svolse gli esami indicati, e qui, secondo il referto, non vi sarebbe stata una rilevante riduzione della densità minerale ossea. Dopo l’esito negativo dell’esame, la paziente tornò così al poliambulatorio, dove una dottoressa, il 18 luglio del 2012, secondo quanto esposto nella corposa denuncia della famiglia, confermò molto di quanto già stilato dal collega reumatologo: “sindrome di Sjogren, distiroidismo, iperuricemia, pregressa tubercolosi polmonare e osteoporosi”. Sostenne quindi che dovesse proseguire la terapia già formulata.

Ai primi di settembre la donna di Veglie tornò per la terza volta al pronto soccorso dell’ospedale di Copertino, sottoponendosi alla radiografia della colonna lombosacrale, che evidenziò “avvallamento somatomarginale di L4 già noto”, “riduzione di altezza anche del corpo di L1”, ma anche riduzione dello “spazio L5-S1” (lettere e numeri stanno sempre a indicare le vertebre, Ndr).

Il 14 settembre la paziente si recò presso uno studio medico, dove le fu diagnosticata “lombalgia con nuova frattura vertebrale in corso di terapia, Sindrome di Sjogren in terapia, cardiopatia ipertensiva” e “broncopneumopatia cronica ostruttiva”. Le furono consigliati alcuni farmaci, ma anche fornite indicazioni per eseguire altri accertamenti di laboratorio, da cui sarebbe risultato che i valori della Ves, della proteina C reattiva e dei globuli bianchi fossero molto più alti della norma.

Dieci giorni esatti dopo quella visita, in tarda serata, dato che febbre, dolore alla schiena e perdita di peso proseguivano inesorabili, la donna tornò per la quarta volta al pronto soccorso di Copertino. Qui, nel verbale, si evidenziò come la paziente riferisse di “febbre alta e dimagrimento” e fu disposto il ricovero in Ortopedia e traumatologia, con una diagnosi di “lombalgia acuta persistente in frattura vertebrale”.

In quel periodo fu sottoposta a esami di laboratorio con valori della Ves e dei globuli bianchi confermati oltre la norma. La terapia fu a base di cortisone e antinfiammatori. Fu dimessa il 3 ottobre, visti i sintomi di miglioramento in merito ai dolori, sebbene per la famiglia e il legale che si li segue, potrebbero essere stati sottovalutati proprio dimagrimento e febbre.

Dalla diagnosi di dimissione risultò un “cedimento somatico amielico di D12, in paziente con pregresso cedimento somatico di L3”. Le furono prescritti riposo a letto e busto ortopedico e le fu suggerito di usare farmaci con azione antidolorifica, antinfiammatoria e antifebbrile e per il trattamento dell’osteoporosi in pazienti in menopausa.

Ma il 17 ottobre, la donna decise di tornare in ospedale per l’ennesimo controllo, recandosi quella volta però al “Galateo” di San Cesario di Lecce. Qui, si ritornò sulla diagnosi di “osteoporosi severa con nuova frattura vertebrale” e il medico le indicò un farmaco per sei mesi, per il trattamento dell’osteoporosi in donne postmenopausa.

Nonostante l’assunzione del nuovo farmaco, costretta a vivere ormai a letto per i dolori e le continue fratture, si fece visitare il 7 dicembre del 2012 presso il “Sacro Cuore” di Gallipoli. E qui fu ricoverata nel reparto di Oncologia. Si sospettava un mieloma. Gli accertamenti per verificare l’esistenza di mielomi, arrivarono a un “quid”: esclusero del tutto la già diagnosticata e più volte ribadita osteoporosi. Smentendo così tutte le altre diagnosi e facendo temere i familiari che tutto il bombardamento di farmaci assunti fino a quel momento potessero aver prodotto effetti collaterali. Per inciso: non fu riscontrato nemmeno un mieloma.

LA MORTE: ANNO 2013

Si arrivò intanto al nuovo anno e il 18 marzo del 2013 la donna subì l’ennesimo ricovero, in quel caso presso il “Perrino” di Brindisi, in Neurochirurgia, dove sintomi quali febbre, vomito, nausea, inappetenza e “sudorazione profusa”, più consulenza oncologica, indussero a formulare una nuova teoria. Alla “grave insufficienza epatica” si aggiunse un “crollo vertebrale d’ipotizzata origine tbc”. Dagli esami strumentali si arrivò così alla diagnosi del Morbo di Pott, cioè la tubercolosi ossea.

La terapia antitubercolare che ne derivò fu interrotta l’11 aprile 2013, per una “epatossicità colostatica”. Furono svolti i test di Coombs e di Wright per individuare la brucellosi, ma i risultati si rivelarono negativi, a differenza di quanto sarebbe accaduto in seguito. E per i timori legati alla tubercolosi ossea, i medici di Brindisi sottoposero a profilassi e controlli specifici anche i parenti più stretti.

Nel frattempo la paziente fu trasferita nel reparto di Malattie infettive. E, dopo terapia antitubercolare, fu dimessa il 10 maggio del 2013 con una diagnosi di “tubercolosi ossea in paziente con versamento pleurico e ascitico e pregressa grave insufficienza epatica acuta da farmaci, ipotiroidismo in trattamento, cardiopatia ipertensiva, diverticolosi del sigma e colon discendente e malattia infiammatoria cronica intestinale”. E ancora: “Calcificazioni a carico della flessura colica destra”.

Passò poco tempo. Il 22 luglio del 2013 un nuovo ricovero, questa volta al “Vito Fazzi” di Lecce. La febbre era tornata, salita in quel periodo addirittura a 39. La diagnosi di accettazione fu di “febbre e anemia in tubercolosi ossea”. Fu ricoverata con urgenza nel reparto di Malattie infettive. Ma al termine degli accertamenti necessari, invece di tubercolosi ossea od osteoporosi, come evidenziato fino a quel momento nel tormentato iter, la paziente risultò positiva alla brucellosi. Furono riscontrati, inoltre, spondilopatia infiammatoria, broncopolmonite, altre forme non specificate di versamento pleurico (eccetto il tubercolare), insufficienza respiratoria acuta e cronica.

La nuova diagnosi sconfessava tutte le altre. Una situazione che gettò la famiglia nella confusione più totale, oltre che nello sconforto. La situazione, infatti, era ormai diventata irreversibile. I parenti decisero di firmare le dimissioni volontarie il 28 agosto. Poche ore dopo, la vita della donna si spense per sempre.



 

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