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Cronaca

Strage della Grottella, nessun risarcimento per le famiglie delle vittime

BRINDISI - Il Consiglio di Stato ha sentenziato, alla vigilia dell’undicesimo anniversario della strage della Grottella, 6 dicembre 1999: nessun risarcimento per i parenti delle vittime. Le mogli, i figli, le madri, delle guardie giurate Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli non hanno diritto a nessun sostegno economico da parte dello Stato, perché l’eccidio fu frutto della solitaria follia criminale del brindisino Vito Di Emidio, alias Bullone, latitante rabbioso a caccia di soldi, svincolato da ogni ossequio alla onorata società dal nome di Sacra corona unita, che per quei fatti, insieme al resto del commando fu condannato per omicidio volontario e rapina commessi in seno ad una associazione a delinquere semplice e non di stampo mafioso.

BRINDISI - Il Consiglio di Stato ha sentenziato, alla vigilia dell’undicesimo anniversario della strage della Grottella, 6 dicembre 1999: nessun risarcimento per i parenti delle vittime. Le mogli, i figli, le madri, delle guardie giurate Raffaele Arnesano, Rodolfo Patera e Luigi Pulli non hanno diritto a nessun sostegno economico da parte dello Stato, perché l’eccidio fu frutto della solitaria follia criminale del brindisino Vito Di Emidio, alias Bullone, latitante rabbioso a caccia di soldi, svincolato da ogni ossequio alla onorata società dal nome di Sacra corona unita, che per quei fatti, insieme al resto del commando fu condannato per omicidio volontario e rapina commessi in seno ad una associazione a delinquere semplice e non di stampo mafioso.

Il buco nero di questa storia annosa sta in questo dettaglio, destinato a fare la differenza su piani che si intersecano, processuale ma anche esistenziale, incrociando l’interrogativo più profondo di ciò che è mafia e ciò che non lo è. La magistratura penale infatti, non è mai riuscita a trovare riscontro a quelle dichiarazioni in cui il futuro pentito sosteneva che parte dei proventi di quella tragica rapina “erano destinati ad elargizioni in favore di alcuni detenuti facenti parte della Scu”, come si legge nella sentenza del Tar di Lecce del 12 gennaio 2005, demolita dal recente pronunciamento del Consiglio di Stato.

La ratio della sentenza depositata il primo dicembre scorso, firmata dalla sesta sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Giancarlo Coraggio e composta dai consiglieri Paolo Buonvino, Rosanna De Nictolis, Maurizio Meschino e Manfredo Atzeni, sta dunque nella verità stabilita in via definitiva dalle sentenze penali che hanno condannato all’ergastolo Pasquale Tanisi, 44 anni, di Ruffano, il 33enne di Copertino Antonio Tarantini e il pastore sardo Marcello Ladu, 34 anni, nativo di  Villagrande Strisaili, in provincia di Nuoro. Identica accusa che condannò rispettivamente a 27 e 30 anni ai cugini e pastori sardi Pierluigi Congiu e Gianluigi De Pau. ). Il più sanguinario dei killer della Scu, autore di “diciannove, forse ventuno omicidi, signor giudice non ricordo…”, per la stessa strage fu condannato, a seguito di giudizio abbreviato, a 18 anni di reclusione mai scontati, privilegio concesso ai collaboratori di giustizia.

La sentenza dei giudici capitolini chiude in via definitiva una storia lunga oltre due lustri. Capitolo doloroso che rinnova ferite antiche, insieme all’interrogativo sulla coincidenza dei percorsi tracciati dalla legge e le traiettorie ideali della giustizia, o forse soltanto quelle del senso comune. La cronaca di quel giorno si racconta in poche battute, gli sforzi investigativi ebbero infatti presto la meglio sulle cautele usate dal commando prima di aprire il fuoco. Quella mattina, all' altezza di Copertino, il gruppo di guerriglieri guidato da Di Emidio assaltò con bombe e kalashnikov i portavalori della Velialpol, lasciando sull' asfalto i tre vigilantes di Veglie e altrettanti feriti, Giuseppe Quarta di Copertino, Giovanni Palma e Flavio Matino, anche loro di Veglie. Bottino un miliardo ed 800 milioni di lire, investimento cospicuo per il futuro dei sei killer, Bullone e gli improvvisati compagni di ventura.

I parenti delle guardie giurate morte sotto i colpi di kalashnikov, Romina Iacovelli, Luigi Arnesano, Teresa Parisi, Marco Arnesano, Genoveffa Patera, Mauro Patera e Marita Conte, si persuasero a bussare alle porte della Prefettura di Lecce, solo molti anni dopo, il 20 aprile 2003, invocando il diritto ad accedere alle provvidenze previste dal Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di reati di tipo mafioso, istituito con la legge 512 licenziata dal Parlamento italiano esattamente il 22 dicembre del 1999, a sedici giorni esatti dalla strage della Grottella. Una mera coincidenza.

A quel fondo, che vincola l’elargizione al dettato delle sentenze penali, i parenti dei ragazzi di Veglie, non possono avere accesso, dice il Consiglio di Stato, per ragioni snocciolate in punta di diritto. La legge non ammette deroghe. Figli, mogli, madri, padri, dovranno accontentarsi delle tre medaglie al valore civile, quella appuntate al petto dei sopravvissuti per mano del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il 23 febbraio 2002: l’oro della riconoscenza dello Stato per il coraggio dei tre agenti. Lo stesso Stato che, per mezzo del ministero degli Interni e del Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso, non ha esitato a costituirsi in giudizio contro i parenti delle vittime di quella strage. Da una parte la legge, dall’altra la giustizia. La prima non tiene evidentemente conto della fatica di sopravvivere delle famiglie, non solo sotto il peso del dolore, ma anche quello della privazione di braccia e forza lavoro.

“Guida le ragioni dei giusti – recita la preghiera delle guardie giurate - guida le nostre schiere e aiutaci. Invochiamo la tua benevolenza. Ricordati di coloro che hanno pagato alto il prezzo degli ideali alla giustizia con il sacrificio del loro sangue e delle loro vite. Chi cade osservando la legge non potrà mai essere distrutto”.

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