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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

I giorni dell'epopea, quando Brindisi aprì le braccia al popolo albanese

BRINDISI - “Sono orgoglioso di appartenere ad una regione che ha accolto decine di migliaia di profughi albanesi a braccia aperte”, sono queste le parole usate in una recente manifestazione pubblica dal presidente della regione Nichi Vendola per ricordare quei giorni difficili. Era il 7 marzo del 1991 quando giunsero nel porto di Brindisi, a bordo di navi mercantili albanesi e di imbarcazioni di ogni sorta, i primi 15.000 dei circa 18.000 profughi albanesi fuggiti dalla gravissima crisi economica e dalla dittatura comunista agli sgoccioli che costringeva la popolazione ad una vita di stenti. Diventarono 27mila nelle ore successive.

BRINDISI - “Sono orgoglioso di appartenere ad una regione che ha accolto decine di migliaia di profughi albanesi a braccia aperte”, sono queste le parole usate in una recente manifestazione pubblica dal presidente della regione Nichi Vendola per ricordare quei giorni difficili. Era il 7 marzo del 1991 quando giunsero nel porto di Brindisi, a bordo di navi mercantili albanesi e di imbarcazioni di ogni sorta, i primi 15.000 dei circa 18.000 profughi albanesi fuggiti dalla gravissima crisi economica e dalla dittatura comunista agli sgoccioli che costringeva la popolazione ad una vita di stenti. Diventarono 27mila nelle ore successive.

Già nella giornate precedenti nei porti di Monopoli,  Brindisi e Otranto arrivavano, su piccoli battelli, centinaia di profughi albanesi in cerca di una vita migliore e un lavoro dignitoso. Nel pomeriggio del 6 marzo del 1991 si affacciavano sul porto di Brindisi due grosse navi mercantili albanesi, la “Tirana” e la “Liriya”,  cariche di 6.500  persone che furono bloccate dalla Capitaneria di porto dietro ordine del prefetto di Brindisi Antonio Barrel a queste due grosse imbarcazioni, durante la notte, se ne aggiunsero altre. Fu solo verso le 10  del mattino del 7 marzo che venne permesso alle navi di attraccare e ai profughi di scendere a terra.

La banchina Sant’Apollinare del porto di Brindisi si  riempì di uomini, feriti, donne  e bambini stremati dal viaggio e dalle troppe ore passate in piedi o stipati come sardine nelle navi sequestrate dagli stessi albanesi ai porto di Durazzo e Valona dove l’esercito albanese aveva avuto l’ordine di non intervenire.  Furono tutti mobilitati, polizia, carabinieri, vigili urbani e Capitaneria di porto, tutti cercarono di contenere l’enorme folla assetata e affamata, un continuo via vai di ambulanze per soccorrere le persone ferite nella ressa o estenuate dal viaggio. Alle loro spalle, in mare, una processione interminabile di imbarcazioni e navi continuava ad arrivare  sino  a raggiungere in quella sola giornata quota 15.000 profughi. Alcune centinaia riuscirono ad eludere la sorveglianza e si riversarono nelle strade dalla città in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti e vestiti puliti.

Emerse subito l’insufficienza dei mezzi a disposizione delle forze dell’ordine di Brindisi nell’affrontare l’emergenza, il sindaco e il prefetto di Brindisi chiesero subito l’intervento dello Stato che tardò quattro lunghi giorni. Inizialmente qualcuno fu alloggiato presso qualche struttura ricettiva della zona, qualcun altro fu stipato nei vagoni ferroviari ma la gran parte dei profughi fu costretto a trascorrere le prime notti all’aperto, sulle banchine del porto ammucchiati per terra ed al freddo coperti solo da teli di plastica distribuiti dalla Croce Rossa Italiana. Nel primo piano-profughi della città vennero sospese le lezioni e requisite una trentina di scuole che vennero sgomberate dell’arredo scolastico per fare posto alle migliaia di persone obbligati a dormire sul pavimento spoglio.

Le condizioni igienico - sanitarie erano drammatiche. Prima nella banchina di Sant’Apollinare del porto  dove fu impossibile lavarsi e utilizzare servizi idonei, poi anche dopo che i profughi furono trasferiti nelle scuole le condizioni non migliorarono di molto, l’erogazione dell’acqua veniva sospesa nel pomeriggio e le istituzioni non avevano serbatoi di riserva sufficienti a soddisfare le esigenze di tutti gli ospiti. A questo si aggiunse il pericolo di epidemie, i vigili sanitari del Comune di Brindisi calcolarono che almeno il 15% dei profughi era affetto da scabbia.

La città di Brindisi venne completamente lasciata in balia di se stessa, costretta a contare solo sulle sue forze. La risposta del governo italiano ai costanti richiami dell’amministrazione locale e di alcuni rappresentati nazionali, fu completamente inadeguata se non inesistente.  Venne incaricato di coordinare tutte le iniziative decise dal governo il ministro della Protezione civile , Vito Lattanzio, al quale il Consiglio dei ministri conferì poteri straordinari. La prima reazione dell’allora  vice presidente del Consiglio, Claudio Martelli, fu quella di avviare attraverso i mass media una campagna di informazione “obiettiva e onesta”  che “produca una’azione di dissuasione nei confronti delle migliaia di albanesi pronti a partire alla volta dell’Italia” preoccupato dell’immagine di accoglienza e paradiso terrestre offerta da alcuni programmi televisivi visibile anche oltre il canale d’Otranto.

Subito venne fatto divieto alle imbarcazioni albanesi di approdare sulle coste pugliesi. Si vagliò anche la possibilità di rimandare i profughi al loro Paese e alcuni di loro, circa 1.500-2.000, forse spaventati dalle condizioni di disagio della permanenza nel porto, vi fecero spontaneamente ritorno. A fare da sfondo alle inutili disquisizioni del governo centrale, c’era Brindisi che chiedeva l’intervento dell’esercito, della protezione civile, l’invio di brande da campo, viveri e aiuti economici.

Unico raggio di sole a splendere tra le tenebre di una burocrazia farraginosa furono la compassione e la generosità dei cittadini brindisini, la gente comune garantì ciò che lo Stato aveva rifiutato. I profughi ricevettero soldi, dalle mille alle diecimila lire, sacchi di vestiti usati, pane, scatolette di carne e di tonno, e molti altri generi di prima necessità e non. Molte casalinghe lasciarono le occupazione quotidiane per portare  ai profughi che vagavano per la città buste piene di viveri. Qualche negoziante fu più solidale di altri, e alcune tabaccherie distribuirono persino sigarette gratis. Ci furono anche forme di solidarietà organizzata . Si mobilitarono le confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil che in collaborazione con le aziende,  furono in grado di assicurare un gran numero di pasti caldi.

Si mobilitarono la Croce Rossa italiana, la Caritas e i cattolici. Ovunque si crearono centri di raccolta viveri e indumenti da donare ai profughi albanesi. Per non parlare di tutti coloro, agenti e militari, che dovettero  fronteggiare la folla di profughi al porto di Brindisi, un servizio continuato con turni di 20 ore. E ancora il servizio offerto dalle radio locali, in particolare, Radio Dara e Ciccio Riccio, che permisero di diffondere gli appelli in lingua albanese per rintracciare i famigliari dispersi. In quei giorni difficili i quotidiani dipinsero l’immagine di una città compassionevole, generosa e tenace, estranea a forme di razzismo e ospitale, incurante delle difficoltà e delle mancanze della macchina istituzionale. Dopo 20 anni la rievocazione di quei giorni diventa uno specchio in cui Brindisi torna a guardarsi.

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