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Cronaca

Il processo sui delitti di Bullone lo chiude Fornaro. E la "Belva" conferma

BRINDISI - Vito Di Emidio accusa, Fabio Fornaro conferma. Finisce così, con le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia (ruolo al quale Fornaro, per il momento, ambisce soltanto) il dibattimento del processo per i dodici omicidi svelati dal killer Bullone. Se nove su dodici di quei delitti, il pentito confessa di essere stato autore solitario, per tre di quella lunga teoria di morti, i brindisini Giuseppe Tedesco, Pasquale Orlando e Daniele Giglio rischiano il carcere a vita, accusati di aver fatto parte del commando che nel 1996 uccise Giacomo Casale e Leonzio Roselli. Tedesco è accusato dal cognato Di Emidio, fratello della moglie Angela, di aver ucciso anche Giuliano Maglie, su suo mandato, nel lontano 1999.

BRINDISI - Vito Di Emidio accusa, Fabio Fornaro conferma. Finisce così, con le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia (ruolo al quale Fornaro, per il momento, ambisce soltanto) il dibattimento del processo per i dodici omicidi svelati dal killer Bullone. Se nove su dodici di quei delitti, il pentito confessa di essere stato autore solitario, per tre di quella lunga teoria di morti, i brindisini Giuseppe Tedesco, Pasquale Orlando e Daniele Giglio rischiano il carcere a vita, accusati di aver fatto parte del commando che nel 1996 uccise Giacomo Casale e Leonzio Roselli. Tedesco è accusato dal cognato Di Emidio, fratello della moglie Angela, di aver ucciso anche Giuliano Maglie, su suo mandato, nel lontano 1999.

Sono questi gli omicidi dei quali si è dibattuto nella defatigante ultima udienza dibattimentale (prima della requisitoria del pubblico ministero Alberto Santacatterina, fissata per il 20 maggio) che si è protratta dalle undici alle diciannove circa di oggi. Sul duplice omicidio Casale-Roselli ha parlato in aula Fabio Fornaro, testimone chiamato in causa dall’accusa. Fornaro, alias la Belva, ha raccontato di aver saputo dei delitti consumati in un casale a ridosso del quartiere Sant’Elia, da uno dei protagonisti: Giglio. “Aveva commesso un grosso errore, un fatto grave”, ha detto.

Alla domanda del presidente su cosa considerasse particolarmente “grave”, Fornaro ha spiegato che non era la morte atroce – picconate, strangolamento, percosse – subita dalle vittime a meritare la sua riprovazione, ma il fatto che si fossero fidati di Bullone, che avessero agito in nome, per suo conto, soprattutto alla sua presenza. “Di Emidio si sarebbe pentito appena lo avessero preso – ha detto -, lo sapevamo tutti, commettere un omicidio con lui era un grosso sbaglio, tanto che dissi a Giglio che se sapeva dove li avevano seppelliti, lo avrei aiutato a riesumarli e spostarli da un’altra parte”. L’affermazione rivela tutta intera la personalità del testimone, se quello che riferisce de relato sia attendibile oppure no, sarà la Corte d’Assise a stabilirlo.

Certo è che Fornaro ha più volte contraddetto lo stesso Di Emidio su dettagli che potrebbero fare la differenza. L’auto sulla quale Giglio fece salire i due giovani affiliati del nemico giurato Franco De Fazio, per colpire il quale andava consumata la vendetta, era una Clio a tre porte di colore bianco, secondo Bullone. “Quell’auto era mia”, ha detto Fornaro, manifestando tutto il proprio disappunto per il fatto che Giglio si fosse servito per accompagnare verso la morte Casale e Roselli, di un mezzo che avrebbe potuto creare grane a lui. Ha affermato, è questo il punto, che si trattava di una vettura a cinque porte della quale tuttavia non ha saputo ricordare quale fosse il colore. Non è l’unica incongruenza.

La Belva, che sostiene di aver ascoltato i dettagli del duplice omicidio dalla bocca di Giglio, rispondendo alle domande del legale Daniela D’Amuri, ha detto che erano stati uccisi a colpi d’arma da fuoco dopo le sevizie. Sui corpi delle due vittime, sottoposti ad autopsia, non sono mai stati rintracciati segni di arma da fuoco. Né Di Emidio ha mai detto che furono colpiti con pistole e fucili: il duplice omicidio fu commesso a mani nude, come hanno confermato i periti interpellati dal tribunale.

Di Emidio, dal canto suo, che è tornato a parlare su richiesta del proprio difensore Manfredo Fiormonti, ha confermato la prima delle versioni fornite agli inquirenti. Tornando dunque ad accusare il cognato Giuseppe Tedesco dei tre delitti, consumati in seno alle vendette trasversali degli anni bui in cui la Scu dettava le regole su tutto il territorio, spargendo sangue e terrore. Bullone, recuperata tutta intera quella memoria che pareva avere smarrito nel primo esame, smemoratezza che gli era costata la libertà, è tornato a puntare il dito contro il cognato e il resto degli imputati.

Ma c’è un dettaglio su tutti, sul quale Di Emidio sembra dire la verità, pesante come piombo. Lo ha confermato il dirigente della Digos, Vincenzo Zingaro, chiamato a testimoniare proprio dalla difesa di Tedesco: il cognato di Bullone viveva in una villa, e non in un condominio, in Montenegro. Zingaro vide personalmente quella villa, con i propri occhi. L’abitazione gli fu indicata dai colleghi della polizia montenegrina dove si era recato per eseguire il mandato di cattura internazionale a carico dei latitanti della Scu rifugiati oltremare, il cognato di Bullone fra quelli. L’affermazione è di sostanza. Sulla residenza di Tedesco si giocava buona parte della credibilità di Di Emidio, secondo il quale il cognato avrebbe ucciso Giuliano Maglie seppellendone i resti nel cortile adiacente la villa dove abitava.

Falso, dice l’imputato, dichiarazione confermata dalla moglie Angela Di Emidio che ha sempre sostenuto di aver abitato in un condominio insieme al marito. Versioni del tutto antitetiche. Ma è quella di Bullone che ha trovato conferma nelle parole del dirigente della Digos. Il finale dell’udienza è stato riservato alla proiezione del video sul quale stanno impresse le operazioni di scavo, nel punto esatto della villa in Montenegro dove Di Emidio ha fatto ritrovare i resti di Maglie. Immagini macabre, sulle quali il pm prima, il presidente Perna poi, hanno chiesto che fosse calato un velo di pudore, di pietà, dato che nulla avrebbero potuto aggiungere alla verità processuale. Quella verità che da qui a breve partorirà la sentenza a carico degli imputati, frutto del pari e dispari sulla credibilità dei pentiti, che farà certamente la differenza nel giudizio della Corte.

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