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Cronaca

Licenziamento illegittimo: Giocartacli condannata a risarcire ex dipendente

Il tribunale di Brindisi ha accolto parzialmente il ricorso contro il licenziamento di una lavoratrice della cooperativa che gestiva l’asilo nido convenzionato con il Comune di Brindisi. La legge Fornero le preclude la possibilità del reintegro

BRINDISI – Il licenziamento è stato illegittimo, ma non può essere reintegrata. A pagare le conseguenze di uno dei paradossi della cosiddetta legge Fornero stavolta è una lavoratrice brindisina che nel luglio del 2017, insieme ad altre colleghe, è stata licenziata dalla Giocartacli, cooperativa sociale onlus attiva nel settore dei servizi sociali per conto di diversi enti pubblici, fra cui il Comune di Brindisi. Il giudice del tribunale di Brindisi – sezione Lavoro, Gabriella Puzzovio, tramite un’ordinanza emessa nei giorni scorsi, ha parzialmente accolto il ricorso presentato dal legale della lavoratrice, l’avvocato Giacomo Greco, contro il provvedimento che ha posto fine al rapporto di lavoro.

La ricorrente prestava servizio presso un asilo nido convenzionato con il Comune di Brindisi e dato in gestione alla Giocartacli. L’1 luglio 2017, la cooperativa ha informato la dipendente e l’Ispettorato territoriale del lavoro di Brindisi di voler procedere al licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, consistente nella “mancanza di carichi di lavoro a causa del mancato rifinanziamento dei buoni servizio per l’infanzia anno scolastico 2017-2018 e l’impossibilità di ricollocare la dipendente in ruoli compatibili con la sua professionalità, nemmeno adibendola a mansioni inferiori”.

Ma l’avvocato della ricorrente ha contestato sia la natura discriminatoria e ritorsiva che il difetto di giustificazione del licenziamento. Il primo profilo di illegittimità non è stato accolto dal giudice, in quanto la lavoratrice, come previsto da una consolidata giurisprudenza, non ha “dato prova dell’intento ritorsivo e, a fortiori, della valenza unica e determinante di tale intento”. La ricorrente, in sostanza, aveva sostenuto di essere stata messa da parte per l’appartenenza a un sindacato, la Cisl, inviso al datore di lavoro. A supporto della condotta ritorsiva sono state addotte anche delle affermazioni rese dalla amministratrice nei confronti di alcune dipendenti, definite “nemiche della cooperativa”.

Tali elementi, però, “non appaiono idonei a palesare – si legge nell’ordinanza – il determinante e unico intento ritorsivo”, né è stato dimostrato “che la cooperativa non avesse visto di buon grado la partecipazione della ricorrente all’associazione sindacale Cisl, posto che la medesima cooperativa aveva coinvolto la stessa sigla sindacale per tutelare le proprie posizioni”. Il ritardo nei pagamenti, dunque, era dovuto “allo stato di crisi in cui versava la cooperativa”.

E qui si entra nell’ambito del profilo di illegittimità per difetto di giustificazione del licenziamento. In punto di diritto, il “giustificato motivo oggettivo di licenziamento presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa”.

Nel caso in questione, stando all’ordinanza, è stato “sufficientemente dimostrato (da parte del datore di lavoro, ndr) che la cooperativa versava in una situazione di crisi economica” e che “l’unità del micro-nido era stata chiusa a causa delle difficoltà di gestione economica dell’attività medesima”. Due i motivi delle difficoltà econimiche in cui versava la cooperativa: i ritardi con cui le amministrazioni pubbliche versavano alla cooperativa i fondi derivanti dalle rette versate per i minori, mediante buoni per l’infanzia; il ridotto numero di iscritti.

Quel che il datore di lavoro non è riuscito a dimostrare, invece, è di aver adempiuto all’obbligo di repechage. L’amministratrice ha infatti sostenuto che non vi era la possibilità di ricollocare la lavoratrice in altri settori, poiché “ulteriori unità erano al completo” e “le risorse assunte erano state destinate a ricoprire profili lavorativi diversi, per i quali era richiesto un titolo di studio superiore a quello posseduto dal ricorrente”.

Ma in realtà, come emerge dai documenti esibiti dalla ricorrente e dalle dichiarazioni dei testi ascoltati, la lavoratrice aveva le qualifiche per svolgere mansioni in altri settori. Inoltre “poco prima del licenziamento e anche successivamente erano stati assunti ulteriori dipendenti inquadrati nel medesimo profilo della lavoratrice”. La Giocartacli, dunque, “non ha rispettato l’obbligo di repechage – scrive il giudice – con conseguente insussistenza del giustificato motivo oggettivo”.

Sulla base degli elementi acquisiti dal tribunale, però, viene meno un requisito di importanza centrale nella definizione delle sanzioni a carico del datore di lavoro: ovvero la manifesta violazione dell’obbligo di ricollocare il lavoratore in altro settore, “essendo emerso che nel periodo immediatamente precedente , nonché nel periodo successivo all’adozione del provvedimento di licenziamento, la società aveva provveduto a nuove assunzioni in posizioni coincidenti con quella posseduta dalla dipendente”. Se la ricorrente avesse dimostrato la sussistenza della condotta discriminatoria e la manifesta violazione dell’obbligo di repechage, il giudice, stando ai dettami della legge Fornero, avrebbe potuto disporre il reintegro. La sola violazione (non manifesta) dell’obbligo di repechage ha portato il giudice a dichiarare “risolto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento”, con “condanna della società al pagamento della indennità risarcitoria, qualificata in 14 mensilità dell’ultima globale di fatto”.

Nei prossimi giorni sono attesi almeno altri pronunciamenti del giudice della sezione Lavoro in merito ad altri ricorsi presentati da lavoratori della Giocartacli licenziati nel luglio 2017.

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