“Mala, politica e droga: in Appello pene più alte per Brandi e Lekli”
Il procuratore generale chiede anche la condanna a sei anni e mezzo per l'ex consigliere Oggiano accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Gli albanesi, ex semaforo, latitanti dal 2011: 24 anni. Tra gli attentati quelli alla Peritas e all'avvocato Pagliara
BRINDISI - Pesa parecchio il conto in nome della giustizia chiesto dal pg nel processo d’Appello sul presunto gruppo di stampo mafioso esistente a Brindisi, sui traffici di droga e su contatti con la politica: il rappresentante della pubblica accusa ha chiesto un aumento delle pene rispetto alle condanne del Tribunale, arrivando a invocare 24 anni per i fratelli Lekli, ex semaforo latitanti da cinque anni, oltre 16 anni per i fratelli Brandi e sei anni e mezzo per l’ex consigliere comunale Massimiliano Oggiano, assolto in primo grado dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
La requisitoria del procuratore generale è stata consegnata nel pomeriggio di oggi ai giudici della Corte d’Appello di Lecce di fronte ai quali si svolge il processo di secondo grado, scaturito dal ricorso azionato sia dai difensori degli imputati che dal pubblico ministero Milto Stefano De Nozza, secondo il quale non solo va affermata la responsabilità penale di tutti gli imputati, compreso l’ex inquilino di Palazzo di città, ma vanno inasprite le pene a fronte delle accuse mosse.
Ventiquattro anni di reclusione sono stati chiesti per i fratelli Arben e Victor Lekli, di origine albanesi, noti a Brindisi per aver regolato il traffico lungo il canale Patri, tanto da essere definiti “semafori umani nel periodo compreso tra il 1990 e il 2003. Quel lavoro che portò entrambi a ottenere la cittadinanza onoraria di Brindisi. Sono diventati introvabili dal 4 luglio 2011, due settimane prima della sentenza del Tribunale di Brindisi che ha portato alla condanna di entrambi a 16 anni di reclusione per traffico di droga, con esclusione dei ruoli di capi e promotori. Avrebbero dovuto presentarsi in questura per firmare, essendo tornati in libertà per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare. Di loro non si hanno più notizie è come se fossero stati inghiottiti nel nulla.. I difensori Raffaele Missere e Giuseppe Terragno hanno ottenuto la parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con il deposito di conversazioni rimaste fuori dal processo di primo grado. Avrebbero rilevato un distributore di benzina per due milioni di vecchie lire, un albergo con undici stanze più un bar e infine avrebbero avviato una società per la commercializzazione di porte blindate, chiamata “Marisa”, dalle iniziali del nome dei figli di entrambi.
Per Antonio Lococciolo, il pg ha chiesto 24 anni, a fronte della condanna a 14 anni. Il pm aveva invocato la pena di 26 anni. Dieci anni chiesti per Antonio Colucci, 14 anni per Gianfranco Contestabile e otto per Borselli.
La sentenza del Tribunale è stata impugnata, tanto dal pm quanto dai difensori Gianvito Lillo, Ladislao Massari, anche per le posizioni di Giovanni e Raffaele Brandi condannati con l’accusa di essere stati alla testa di un gruppo di stampo mafioso per sette anni, a far data dal 2000, nel solco della vecchia Sacra Corona Unita. Il pg ha chiesto 20 anni per Giovanni Brandi e 19 per Raffaele.
“Il trattamento sanzionatorio riservato” è stato ritenuto “eccessivamente blando e in contrasto con la descrizione della caratura criminale dello stesso” visto che i giudici si sono espressi affermando la “negatività della personalità”, ha scritto il pm nei motivi di appello. Giovanni Brandi, il più giovane dei fratelli, è stato condannato a 13 anni e otto mesi: il pm ha appellato per chiedere venti anni di reclusione e questo perché “ritiene che la pena non appare proporzionata al ruolo rivestito nella consorteria mafiosa capeggiata dal fratello nonché dalla vastità degli interessi perseguiti”. Basti pensare – si legge– “all’interessamento manifestato e attuato al momento dell’apertura del cantiere dove doveva sorgere il complesso commerciale Carrefour o alla capacità di ricorrere alla violenza per piegare la volontà di altri illeciti concorrenti nella gestione delle estorsioni”.
“Alcune episodi sono gravi come l’incendio all’auto dell’avvocato Cosimo Pagliara” che era il presidente della Multiservizi: le fiamme sarebbero state il frutto di una “vendetta” per il licenziamento di Brandi, seguito all’arresto in flagranza per il furto di una vettura. L’incendio risale al 6 dicembre 2006. Pagliara è parte civile. Non è stata, invece, depositata alcuna istanza di costituzione di parte civile da parte dell’imprenditore Ferrero Cafaro, titolare della società Peritas: i silos dello stabilimento furono presi di mira da quattordici colpi di kalashnikov, azione anche questa di natura intimidatoria per ottenere la guardiania, posta in essere la sera del 31 dicembre 2006.
Tra gli imputati anche Giuseppe Gerardi ritenuto il “braccio armato” dell’associazione, condannato in primo grado a 16 anni di reclusione, mentre il pm aveva invocato 20 annie tanto ha chiesto il pg tenuto conto del “numero impressionante di reati, molti dei quali confessati a dibattimento praticamente terminato, indicativi di uno spessore criminale non comune, sebbene sorretto da un’arroganza molto spesso primitiva, basti pensare che tutte le accortezze approntate dai correi, nulla hanno potuto contro le chiare, limpide ed evidenti ammissioni e coinvolgimenti di terzi effettuate da Gerardi all’interno dell’auto oggetto di intercettazione”. E’ la Renault nella quale è stata nascosta una cimice che ha permesso di ascoltare – tra le altre – la conversazione sulla preparazione e sull’esecuzione dell’attentato incendiario dell’auto di Pagliara.
La Procura ha appellato l’assoluzione di Massimiliano Oggiano, consigliere comunale uscente e non ricandidato, assolto dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale perché “non vi è stata alcuna prova che abbia fornito vantaggi al sodalizio”. Anzi c’è stata evidenza del contrario, stando alle motivazioni del Tribunale che ricalcano quanto sostento dal difensore dell’imputato, l’avvocato Fabio Di Bello, nella sua arringa aveva fatto riferimento al caso dell’ex ministro della Dc, Calogero Mannino, non solo indagato ma anche arrestato (il 13 febbraio 1995) con accuse identiche a quelle mosse nei confronti del brindisino, poi cancellate dalla Corte di Cassazione. La verità processuale di primo grado è questa: “Può ritenersi processualmente acquisito che Oggiano nell'ambito della sua attività politico-elettorale si sia avvalso dell’ausilio del gruppo “Brandi” che gli assicurava protezione e voti; che di tale protezione Oggiano abbia usufruito anche al di fuori della sua attività strettamente politica, anche in virtù di un pregresso rapporto di conoscenza che legava il padre, alla figura di Raffaele e di Giovanni Brandi, personaggi il cui spessore criminale gli era certamente noto”.
“Tuttavia alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, tali circostanze non appaiono sufficienti a configurare la penale responsabilità del medesimo imputato per i reati ascritti, in assenza di ulteriori evidenze processuali che dimostrino l'esistenza di una effettiva contropartita offerta dal politico in favore dell’associazione che non può essere per ciò solo presunta”, hanno rimarcato i componenti del collegio giudicante. “Non vi è prova, infatti, che Oggiano abbia a sua volta offerto specifici vantaggi al gruppo che lo sosteneva”. La Procura è convinta del contrario e oggi il pg ha chiesto la condanna a sei anni e sei mesi.