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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

"Masino Gioia" ucciso perchè umiliò il boss

S.VITO DEI NORMANNI - L’omicidio di Tommaso Marseglia, “Masino Gioia”, avvenuto nella notte tra il 22 ed il 23 luglio 2001, è un esempio ulteriore e illuminante di come la Sacra corona unita di Mesagne amministrasse il proprio predominio sui territori limitrofi, dove si poteva solo operare in concessione, e mai autonomamente.

S.VITO DEI NORMANNI - L’omicidio di Tommaso Marseglia, “Masino Gioia”, avvenuto nella notte tra il 22 ed il 23 luglio 2001, è un esempio ulteriore e illuminante di come la Sacra corona unita di Mesagne amministrasse il proprio predominio sui territori limitrofi, dove si poteva solo operare in concessione, e mai autonomamente. Chi aveva osato rifiutare la sottomissione ai Mesagnesi era stato ammazzato senza scampo, come dimostra la lunga sequenza di omicidi avvenuti tra la seconda metà degli anni Ottanta e gli anni Novanta, a partire da quello di Antonio Antonica e dei suoi amici che avevano osato sfidare Giuseppe Rogoli. Ecco cosa emerge dalle indagini dell'Operazione Zero (video)

Il corpo di Marseglia, sfigurato dai colpi d’arma da fuoco, fu trovato la mattina del 23 luglio dietro un muro a secco in contrada Marangelle, lungo la provinciale tra S.Vito dei Normanni e Specchiolla, parzialmente coperto con un telo da spiaggia. La vittima era uscita dal carcere il 20 febbraio precedente dopo aver scontato una condanna (senza sconti) di dieci anni per le attività del racket estorsivo a S.Vito. Ufficialmente, si era messo a fare il guardiano per uno stabilimento balneare di Specchiolla, e a mezzanotte stava rientrando in paese in moto. Gli spararono, poi nascosero il corpo, fecero sparire la moto e cancellarono le macchie di sangue.

La banda di estorsori capeggiata da “Masino Gioia” aveva messo sotto i commercianti di S.Vito dei Normanni con una stagione di attentati quasi quotidiani durata due anni, dal 1991 al 1992. Sessanta tra bombe e incendi, senza contare piantagioni estirpate o tagliate e altre azioni criminose. Ma accadde un fatto insolito per questi territori: la società locale reagì, guidata dal sindaco dell’epoca, Rosa Stanisci, e dal parroco della chiesa di S. Francesco, dove cominciarono a riunirsi prima da soli, poi assieme al capitano dei carabinieri al capo della squadra mobile e al pm Michele Emiliano, le vittime.

Nacque così la prima associazione antiracket della Puglia, l’Acias, tenuta a battesimo da Tano Grasso e dalle bombe che furono fatte esplodere anche in una scuola elementare la sera della prima manifestazione contro il crimine. Ma per la banda dei bombaroli era finita. Polizia e carabinieri riuscirono, con due distinte operazioni, a mettere fuori gioco il racket locale. Al processo le condanne furono severe, e tutti quegli imputati hanno scontato sino all’ultimo giorno.

Quando Marseglia uscì, la sua sorte fu decisa dall’uomo che controllava la zona per conto della Scu, Carlo Cantanna, mesagnese ma insediato sin dalla nascita in una masseria dell’agro di S.Vito (oggetto più recentemente di confisca da parte dello Stato). Agli atti del processo al racket di S.Vito c’è una telefonata tra lui e un esponente di spicco della Scu che si riteneva fosse proprio Cantanna, in cui a Marseglia veniva imposto un obbligo: “Agli amici servono 350 milioni. Vedete voi come procurarveli: a San Vito avete campo libero".

In fondo, per la Sacra corona unita di Mesagne, il gruppo organizzato di S.Vito non era una sua emanazione ma una “stidda”, una banda autonoma ma sottoposta appunto ad obblighi di tributo. E per evitare che a un certo punto le “stidde” potessero mettere in discussione il potere centrale, come in Sicilia dove era scoppiata una guerra sanguinosa tra autonomi e famiglie mafiose, la Scu non perse tempo a dimostrare che chi non obbediva era destinato a campare poco.

Infatti, secondo gli investigatori che hanno lavorato all'Operazione Zero, Carlo Cantanna decise di uccidere personalmente Tommaso Marseglia dopo che questi, al termine di un diverbio, lo aveva schiaffeggiato ed umiliato in presenza di alcun i suoi affiliati. Cantanna, dicono le indagini, tese a Marseglia l'agguato mortale sulla provinciale Specchiolla-San Vito, e quando la vittima fu a tiro gli sparò contro alcune fucilate con cartucce caricate a pallettoni 11/0, prima mirando al torace, poi alla testa quando Marseglia era già a terra.

Ma la lite fatale tra Tommaso Marseglia e Carlo Cantanna non avvenne, secondo gli inquirenti, per contrasti su interessi malavitosi. In realtà, dopo 10 anni di carcere, Tommaso Marseglia aveva probabilmente deciso che era molto meglio vivere una vita più tranquilla con la propria famiglia. Peraltro, era sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Tuttavia essendo una persona che non tollerava ingerenze e imposizioni, aveva deciso di chiarire una faccenda di cui era venuto a conoscenza durante la detenzione quando era in cella con Salvatore Palasciano: questi gli aveva confessato che una proprietà di Marseglia in contrada Asciola, in agro di latiano, veniva utilizzata a sua insaputa da egli stesso ed altri pregiudicati per nascondere auto e moto rubate.

Tommaso Marseglia si recò allora, alla prima occasione utile, da Vito Turrisi, uno dei soggetti indicati da Palasciano, e gli chiese conto dei fatti. Turrisi disse che in realtà l'uso della proprietà era stato accordato da uno dei figli di Marseglia dietro compenso di mezzo milione di lire. Il giovane, successivamente interpellato dal padre, disse che si trattava di una falsità e chiese di essere messo a confronto con Turrisi. Marseglia rispose che non c'era fretta. Incontrò infatti Palasciano, che nel frattempo si era dato alla latitanza, e questi confermò ciò che gli aveva già detto. Tommaso Marseglia tornò da Turrisi, il quale accusò Palasciano di essere un falso ed un infame, ma "Masino Gioia" lo mise a tacere con due schiaffi.

Turrisi era un affiliato di Cantanna, dicono gli investigatori, e ben presto a Marseglia fu fatto avere un pizzino con il numero di telefono del boss mesagnese, recapitato da un messaggero che sollecitava una telefonata a quell'utenza. Cosa che Marseglia fece con calma e a suo tempo. Cantanna lo invitò ad andarlo a trovare a Mesagne, il sanvitese rispose che non poteva perchè era gravato dall'obbligo di soggiorno, e perciò che andasse Cantanna a trovarlo a S.Vito. L'incontro avvenne. Cantanna rimproverò Marseglia dicendogli che Turrisi e gli altri erano suoi affiliati e che lui non era nessuno, e perciò non poteva chiedere conto di nulla; Marseglia rispose a Cantanna a muso duro: era il mesagnese a non essere nessuno, e quanto i toni si surriscaldarono, affibbiò due schiaffi anche al boss mandandolo al tappeto.

Cantanna si rialzò - riepilogano gli inquirenti - e si avvicinò ad una Lancia Delta a trazione integrale per prendere un telefono cellulare. Alla chiamata risposero in pochi minuti cinque soggetti che evidentemente il boss mesagnese si era portato di scorta, tra i quali Francesco Turrisi, nipote di Vito, i quali scendendo dall'auto dissero a Marseglia di essere tutti affiliati a Cantanna, che era il loro padrino. Tommaso Marseglia non si fece intimidire: disse ai cinque di portarsi via quel "signore nessuno" e che lui era superiore a Cantanna. Qualche giorno dopo incontrò proprio Francesco Turrisi e prese a schiaffi anche lui, accusando il nipote di aver tentato di farlo andare a Mesagne per essere ammazzato. Non molti giorni dopo, mentre tornava a casa attorno alle 23,30 alla guida del suo scooter Sfera, "Masino Gioia" cadde sotto le fucilate di Carlo Cantanna.

 

 

 

 

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