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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca

Morto d'amianto: più di un milione ai famigliari, ma l'azienda è in liquidazione

Hanno ottenuto il riconoscimento di un risarcimento danni di 1 milione e 235mila euro per la morte del loro congiunto, ma l'azienda per la quale il defunto lavorava, nel frattempo, è finita in liquidazione. I soldi li dovranno chiedere agli amministratori dell'epoca. Si profila una nuova trafila nelle aule di tribunale per gli eredi di un operaio del petrolchimico deceduto nel 2005

BRINDISI – Hanno ottenuto il riconoscimento di un risarcimento danni di 1 milione e 235mila euro per la morte del loro congiunto, ma l’azienda per la quale il defunto lavorava, nel frattempo, è finita in liquidazione. I soldi li dovranno chiedere agli amministratori dell’epoca. Si profila una nuova trafila nelle aule di tribunale per gli eredi di un operaio del petrolchimico deceduto nel 2005 a causa di un asbetosi e carcinoma polmonare riconducibile all’esposizione alle fibre di amianto e ad altre sostanze nocive presenti nello stabilimento.

La Corte d’Appello di Lecce ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello proposto contro la sentenza del tribunale di Brindisi, in persona del giudice del lavoro Domenico Toni, che ha condannato la ditta “Santino e Mario Beraud Spa” a risarcire la moglie (deceduta durante il processo) e i quattro figli della vittima, difesi dall’avvocato Giacomo Greco. Permane, dunque, l'efficacia giuridica della sentenza di primo grado.

L’operaio ha lavorato nel petrolchimico per 22 anni, dal 1963 al 1985, con le mansioni di sabbiatore, spruzzatore, verniciatore, spalatore e pulitore meccanico. In virtù dell’esposizione alle particelle di amianto e di altre sostanze nocive con cui è entrato in contatto sul luogo di lavoro, aveva ottenuto il riconoscimento dei benefici pensionistici. La sentenza stabilisce che il male diagnosticato nel febbraio del 2005, portandolo alla morte dopo quattro mesi di agonia, è una conseguenza diretta della mancata adozione di appropriati mezzi di protezione in relazione alla natura delle sostanze cui è stato esposto nel corso del rapporto di lavoro.

Il giudice monocratico è arrivato a questa conclusione attraverso le testimonianze di diversi colleghi del deceduto e la perizia del Ctu (consulente tecnico d’ufficio). Dagli esiti delle prove testimoniali, supportati anche dal parere del Co.Tarp, organo delegato dall’Inail per l’accertamento dell’ esposizione all’amianto sui luoghi di lavoro, è emerso che l’espletamento delle mansioni alle quali l’operaio era stato adibito “implicava sistematicamente la dispersione di fibre di amianto (in particolare è emerso l’utilizzo di absesto spray, materiale collante per amianto spruzzato con una pistola)”. Inoltre, sempre dalle dichiarazioni rese dai colleghi, è stato appurata l’assenza di mezzi di protezione adeguati: casco, scarpe, tute e maschere munite di filtri adatti all’amianto.

La responsabilità di tali omissioni ricade sul datore di lavoro. In sede processuale, in particolare, è stato riscontrato “come la Beraud non abbia mai informato i lavoratori in merito ai rischi connessi alle lavorazioni ad essi affidato”. Un lavoratore ha infatti affermato che nessuno era stato mai messo al corrente della nocività dell’impianto.  “All’epoca – dichiara un altro dipendente – non sapevamo della pericolosità dell’amianto e nessuno ci ha spiegato niente”. “Non abbiamo mai avuto informazioni o istruzioni – si apprende da una terza testimonianza – sulla nocività dell’amianto”.

Al datore di lavoro vengono quindi contestate: “l’omessa adozione di tute le misure di prevenzione conosciute all’epoca dei fatti, necessarie ad impedire l’insorgere della malattia”; la violazione dell’obbligo di informazione dei lavoratori, incombente sul datore di lavoro appunto, nel caso di esposizione a rischi specifici”. Il nesso di causalità diretta fra la malattia e l’esposizione alle sostanze nocive è stato accertato in base alla relazione del Ctu, il dottor Antonio Montanile. “Calcolando conservativamente gli anni di lavoro presso il petrolchimico – scrive Montanile – è quindi pacifico che questo soggetto possa, nel corso dell’intero periodo lavorativo al petrolchimico, aver subito una esposizione accumulativa superiore a 0,3 fibre/ml/anno”.

Pertanto, il Ctu conclude che “è possibile evidenziare, con accettabile livello di certezza, un legame fra il carcinoma polmonare che ha colpito e portato alla morte il signor (omissis) e le attività svolte presso la società resistente”. La perizia ha accertato anche che “l’abitudine tabagica” dell’operaio (fumatore di circa 20 sigarette al giorno per 40 anni) ha influito sull’insorgere della malattia, ma la dipendenza dal fumo di sigarette, come stabilito dal giudice sulla base di una consolidata casistica e della stessa perizia del Ctu, non poteva costituire di per sé la sola causa scatenante della neoplasia, se si considera il più che probabile superamento della soglia di esposizione all’amianto prevista dalla legge. I due agenti cancerogeni, insomma, hanno avuto un effetto sinergico: non c’è stata la prevalenza del tabagismo sull’esposizione all’amianto.

Alla fine, il giudice ha riconosciuto: il danno biologico “iure hereditatis”; il danno morale catastrofale (la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia, risarcibile iure hereditatis unicamente nel caso in cui il malcapitato abbia avuto l’angosciosa consapevolezza della fine imminente); il danno parentale, iure proprio. Ai ricorrenti non sono stati riconosciuti: il danno morale soggettivo iure hereditatis, in quanto assorbito in quello catastrofale; ed il danno biologico iure proprio, in quanto non è risultato provato. La “Santino e Mario Beraud”, però, non esiste più. E gli eredi, rivoltisi anche all'avvocato Giuseppe Guastella, hanno già imboccato una singolare strada: quella di rintracciare le persone che l’hanno amministrata fra il 1963 e il 1985. 

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