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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

Quando l'emergenza non è la Scu

BRINDISI - Si, è vero, a Brindisi la Scu c’è ancora. Si nutre di droga, e infatti festeggia le affiliazioni in carcere con la cocaina. Non è più un sistema strutturato e verticistico come lo era un tempo. E’ una organizzazione che conosce a menadito quelle che sono state le proprie criticità e che le ha affrontate, mutando forma e consistenza per non lasciarsi debellare. Il concetto di illegalità, però, non si può blindare nei confini della definizione di “mafia”, nella sua accezione più nota.

BRINDISI - Si, è vero, a Brindisi la Scu c’è ancora. Si nutre di droga, e infatti festeggia le affiliazioni in carcere con la cocaina. Non è più un sistema strutturato e verticistico come lo era un tempo. E’ una organizzazione che conosce a menadito quelle che sono state le proprie criticità e che le ha affrontate, mutando forma e consistenza per non lasciarsi debellare. Il concetto di illegalità, però, non si può blindare nei confini della definizione di “mafia”, nella sua accezione più nota.

L’illegalità è molto di più: serpeggia laddove latitano le occasioni di sviluppo, sulle scrivanie piene di carte dei magistrati che non hanno il tempo di dedicarsi alle indagini importanti, per la mole di futilità penali cui devono necessariamente dedicarsi, nelle stanze della politica che condiziona la macchina amministrativa fino a renderne impossibile la gestione.

“Dobbiamo tornare all’indignazione”, così il sostituto procuratore di Brindisi, Milto De Nozza, ha concluso questa sera un dibattito nel corso del quale la vocazione criminale passata e presente della nostra terra è stata passata ai raggi x. Al suo fianco, nell’auditorium della biblioteca provinciale, c’era il capo della procura della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, che ha offerto alla platea il proprio bagaglio di esperienza e una capacità di lettura dei fatti di ampio respiro.

E poi il prefetto di Brindisi, Nicola Prete, che da rappresentante delle istituzioni e conoscitore interno della burocrazia ne ha fornito una immagine realista, a tratti impietosa. Ha moderato il dibattito, interrogando i magistrati e il prefetto con domande sulle dinamiche di ieri e di oggi il direttore di Brindisireport.it, Marcello Orlandini.

La chiacchierata pomeridiana si inserisce nell’ambito di un’iniziativa patrocinata dal Comune: un mese da “capitale antimafia” per la città di Brindisi, un titolo che le è stato temporaneamente conferito e sul quale, anche oggi, c’è stato da dibattere.

Due decenni di lotta organizzata. In principio era il contrabbando ed era un illecito fiscale. Ma “ha creato ricchezze che sono state reinvestite” ha spiegato il procuratore Dinapoli, in una digressione storica sulle origini della Sacra corona unita in terra brindisina: “Fu un fenomeno trascurato fino alla morte dei due finanzieri, Antonio Sottile e Alberto De Falco”. Poi scattò l’operazione Primavera e fu un’operazione di pulizia prima di tutto culturale. “Se ci approcciamo alla criminalità oggi come se fosse rimasta immutata commettiamo un grosso errore” ha risposto il pm De Nozza.

“Oggi è un fenomeno frastagliato, e questo cambiamento è il frutto di un’evoluzione”. Loro imparano dagli sbagli commessi: “Lo è stato costituire una struttura con ruoli di comando – ha proseguito – in cui tutti sapevano tutto. E’ così che sono finiti. Oggi, quindi, ognuno gestisce il proprio territorio, appartenere alla criminalità organizzata significa aderire a una sorta di pensiero comune”.

C’è la pax, quindi. Niente riti di affiliazione. Bando ai capi, ai gradi. Lo dicevano i nipotini di Totò Riina, a San Pietro Vernotico, lo ha poi rivelato il pentito mesagnese Ercole Penna, il più accreditato attualmente, colui il quale ha consegnato agli inquirenti una fotografia nitida della Scu degli anni Duemila. Meglio non rischiare. I capisaldi della dottrina malavitosa restano però quelli di sempre. Come i cognomi che si ripropongono a diversi lustri di distanza: “Sono gli stessi a 20 anni di differenza”, ha fatto notare il pubblico ministero.

C’è poi la questione degli appalti, della necessità di tutelare i cittadini dalle infiltrazioni nella cosa pubblica. La prefettura è in prima linea: “Ma manca la cultura della denuncia. Gli imprenditori non chiedono che siano compiute verifiche sugli appalti che sarebbero andati a sottoscrivere. Lo ha fatto solo Enel, fino a ora” ha riferito il prefetto Prete.

I sindaci denunciano a ogni piè sospinto, ma si affrettano a farlo sapere ai giornali prima di agire con concretezza. Le leggi non aiutano, soprattutto nella trasformazione in peggio che hanno subito nel corso degli anni. Favorite, secondo il prefetto, le pressioni della politica su chi invece ha il dovere di governare la cosa pubblica. Poi c’è la fame: “I ragazzi – ha aggiunto – a 17 anni vanno a fare le rapine perché qui non ci sono occasioni di sviluppo”. Le occasioni di sviluppo le dà chi sta nelle stanze dei bottoni. E nelle stanze dei bottoni c’è gente scelta dal popolo, che quindi “è il primo a dover effettuare un controllo nella scelta dei propri rappresentanti”.

Cosa resta oggi della Scu di ieri? Restano quelli che con una fedina penale per nulla specchiata, hanno potuto ottenere benefici di tipo “assistenziale”, venendo inseriti nelle più importanti società che gestiscono servizi. Una realtà inconfutabile, di fronte alla quale, a domanda di Orlandini, i magistrati non hanno potuto far altro che annuire. Restano i comportamenti “mafiosi” che si registrano poi, ad esempio, nel corso di uno sciopero tra netturbini. Non è 416 bis, ma sono “comportamenti mafiosi” se intesi in senso lato. Perché fanno a pezzi la legalità, ha rimarcato De Nozza.

Restano gli strumenti legalizzati che giungono in soccorso degli ex detenuti che trovano sistemazione prima delle “brave persone”, ha raccontato il prefetto Prete. E poi ancora la difficoltà di inculcare nei cittadini la propensione alla denuncia, ha sottolineato Dinapoli. Perché denunciare significa “esporsi”, termine orribile. Significa testimoniare davanti alla polizia giudiziaria, agli inquirenti e poi nel contraddittorio tra accusa e difesa di un processo. E spesso, non ne vale la pena.

Restano gli attacchi alla magistratura, le leggi fatte male. I termini di prescrizione dei reati, sempre più ridotti, tanto che alla fine non si riesce neppure ad arrivare in Cassazione. Magistrati che devono cercare verità importanti ma anche occuparsi dei fucili illegalmente detenuti dai cacciatori. E mentre si occupano dei bracconieri, scoprono che ci sono industrie che inquinano e che i controlli non si sono mai compiuti a dovere.

Scoprono che le torce del petrolchimico sfiatano in continuazione, mentre in realtà dovrebbero essere dispositivi di emergenza. E che il territorio brindisino è devastato dal fotovoltaico, ma gli inquirenti hanno difficoltà anche a chiedere che sia eseguito un banalissimo sequestro. Per non dire delle intercettazioni ai parlamentari che sono inutili perché essi debbono essere avvisati prima di essere ascoltati, e tanto vale lasciarli telefonare in pace. E dell’impossibilità di conoscere cosa c’è scritto nelle lettere che i detenuti mandano all’esterno, senza prima aver comunicato loro che la corrispondenza sarà sottoposta a controlli.

Troppi paletti, e troppi illeciti su cui indagare. Infinite norme da cambiare. Un andazzo verso il malaffare da sovvertire. I mafiosi danno ancora ordini dal carcere e festeggiano le affiliazioni con la cocaina. Poi c’è l’insistenza di chi vuole a tutti i costi che questa terra sia mafiosa. Lo voleva anche quando a far rischiare la strage davanti a una scuola era solo un “pazzo” isolato, il virgolettato è d’obbligo. Ma non era così: e, va detto (e lo hanno ribadito oggi anche loro) che la procura di Brindisi lo aveva capito prima degli altri.

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