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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

Scu, sugli omicidi accuse tra i fratelli Campana anche in Appello

Ricorso di Francesco Campana condannato all'ergastolo per l'uccisione di Toni D'Amico dopo i verbali del "consanguineo" Sandro, pentito: ha svelato la vendetta trasversale nei confronti dell'ex Uomo Tigre della Scu ed è credibile per i giudici della Corte d'Assise di Brindisi

BRINDISI –  Fratello contro fratello anche in Appello, nel processo scaturito dall’inchiesta “Zero” dell’Antimafia, sugli omicidi di stampo mafioso: Francesco Campana, 43 anni, ritenuto a capo della frangia brindisina della Scu, chiede l’assoluzione dall’accusa di aver ucciso Toni D’Amico sulla diga. Per l’omicidio di stampo mafioso del fratello dell’ex Uomo Tigre è stato condannato all’ergastolo con isolamento diurno per un anno.

Sandro Campana dopo la catturaL’Appello è stato fissato su ricorso presentato dall’avvocato Cosimo Lodeserto, partendo dal riconoscimento della “patente dei credibilità” del fratello pentito di Francesco Campana, Sandro, 41 anni, passato dalla parte dello Stato nel mese di luglio 2015: in aula, in videoconferenza, da una località protetta, il collaboratore ha ricostruito il “fatto di sangue” avvenuta sulla Diga di Punta Riso la sera del 9 settembre 2001, rispondendo alle domande dei pm della Dda e del presidente della Corte d’Assise del Tribunale di Brindisi.

Secondo la Corte il pentito è credibile e quelle dichiarazioni hanno portato alla condanna del carcere a vita per il maggiore dei fratelli Campana in concorso con Carlo Gagliardi. Anche per quest’ultimo, difeso dall’avvocato Massimo Murra, c’è ricorso in Appello dopo il primo verdetto di carcere a vita.

“Sandro Campana non si è tirato indietro e non ha risparmiato neppure il fratello Francesco, quando ha deciso di collaborare con la giustizia: ha confessato che fu suo fratello a sparare a Toni D’Amico, usando un fucile calibro 12, prima alle spalle mentre pescava sulla diga di Punta Riso a Brindisi, e poi in faccia”, si legge nelle motivazioni della sentenza. Francesco Campana è detenuto nel carcere di Voghera, dove si è sposato l'anno scorso e ha iniziato a studiare Filosofia.

Lui stesso ha letto le motivazioni, come ha sempre fatto degli atti che lo riguardano. Ha letto anche dei verbali del fratello, "consanguineo" con il quale sostiene di non aver avuto contatti. Lo ha chiamato così in videoconferenza dopo aver chiesto la parola per consegnare la sua dichiarazione di innocenza: “Io non ho mai ucciso nessuno”. Secondo il pentito, Toni D’Amico doveva pagare con la vita la decisione di Massimo D’Amico, alias l’Uomo tigre, il fratello, perché aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Massimo D’Amico è parte civile nel processo con richiesta di risarcimento simbolico di un euro, mentre il Comune di Mesagne ha chiesto centomila euro. Assente l’amministrazione di Brindisi.

“Campana Sandro è interno al gruppo mafioso cui era ricollegabili entrambi gli imputati, risulta portatore di conoscenze dirette e in parte de relato”, si legge nelle motivazioni, nelle quali viene ricordato che Campana è anche il primo collaboratore a staccarsi dal gruppo dei rogoliani di Brindisi-Tuturano, mentre i pentiti precedenti sono tutti del clan dei mesagnesi.

I passaggi del racconto che i giudici hanno apprezzato sono relativi all’ordine “dato da Giuseppe Gagliardi, detenuto a Livorno, fratello di Carlo Gagliardi, per il tramite di un altro fratello, Giovanni Gagliardi, nel luglio-agosto 2001, approfittando una visita nel penitenziario”. In quel periodo i due imputati “erano latitanti nel basso Salento, ad Acquarica del Capo. Le modalità, il pentito Sandro Campana, le avrebbe apprese da Giovanni Gagliardi subito dopo l’omicidio”.

Cosimo Lodeserto-2Gli altri pentiti che  di fatto hanno condannato al fine pena mai i due imputati, sono  Fabio Panico, il primo a svelare gli esecutori materiali, a distanza di anni Ercole Penna, a seguire Francesco Gravina. Panico è stato ritenuto credibile e le sue dichiarazioni “apprezzate in un’altra vicenda giudiziaria, quella dell’omicidio di Massimo Delle Grottaglie, per il quale sono stati condannati Carlo Gagliardi e Antonio Campana”, giudicati con rito abbreviato.  

Per l’omicidio di D’Amico, Panico ha detto che la “fonte della sua conoscenza è Francesco Argentieri, nel periodo di comune detenzione nel carcere di Lecce, tra marzo e aprile 2003” senza precisare da chi Argentieri avesse saputo. Secondo il difensore di Campana, Cosimo Lodeserto (nella foto accanto), le dichiarazioni di tutti i pentiti, a partire da Sandro Campana, sono  “circolari” e alimentate dalla lettura di provvedimenti di arresto e di articoli di giornale.

Penna ha prima di tutto chiarito il rapporto tra il suo gruppo, quello dei mesagnesi e quello di Campana e Gagliardi definendolo “buon viso a cattivo gioco” e poi ha affermato di aver saputo dell’omicidio “direttamente dai protagonisti”: Gagliardi, suo ex affiliato che poi era passato con Giuseppe Leo e infine con Campana, gliene aveva parlato nel carcere di Lecce per le udienze del processo Mediana, in seguito lo stesso aveva fatto Francesco Campana sempre in carcere, indicato come il più prodigo nel riferire le modalità dell’esecuzione. Nessuno invece gli aveva detto come avevano fatto a trovare Toni D’Amico sulla diga.

Aspetto sul quale l’avvocato Cosimo  Lodeserto è tornato dopo che la Corte lo aveva ritenuto non importante dal momento che a Penna questo non interessava, essendo invece interessato a capire cosa avesse mai detto D’Amico sul conto. Nessuno poteva immaginare che Penna sarebbe diventato lui stesso pentito. Neppure Francesco Campana. Gravina, alias il Gabibbo, “riferisce di aver saputo tutto da Massimo Delle Grottaglie, defunto, e poi di aver appreso altri particolari dallo stesso Carlo Gagliardi durante l’ora di aria nel carcere di Lecce, quando i due ebbero una lite. Gagliardi  lo rimproverava di aver picchiato il figlio di Pino Rogoli, mentre lui e Francesco Campana erano stati capaci di uccidere D’Amico, fratello del tigre”.

In appello anche Carlo Cantanna, detenuto nel carcere di Opera, difeso dall’avvocato Raffaele Missere, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Tommaso Marseglia, avvenuto a San Vito dei Normanni il 21 luglio 2001: mandante ed esecutore, per lavare l’onta di uno schiaffo ricevuti durante un litigio nella sua masseria, dopo un confronto su chi dovesse avere il controllo su San Vito dei Normanni.  Marseglia, tornato libero dopo dieci anni in cella voleva opporsi alle interferenze di Cantanna e dei suoi uomini, da qui il diverbio. Marseglia fu raggiunto dai killer mentre rientrava a casa in moto da Specchiolla. Il colpo di grazia, diritto alla testa, fu esploso quando giaceva a terra.

 

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