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Giovedì, 18 Aprile 2024
Cronaca

Si decide sulla confisca dei beni di famiglia, ricompare in aula Ciro Bruno

TORRE S. SUSANNA - Dopo tredici anni di 41 bis Ciro Bruno, boss torrese della Scu due volte condannato all’ergastolo per omicidio, torna nelle aule del tribunale di Brindisi. Il processo è quello che deciderà le sorti del sequestro preventivo che il 15 giugno 2009 fece finire sotto sigillo beni immobili per circa cinque milioni di euro, tanto almeno secondo la stima dei consulenti interpellati dal sostituto procuratore Adele Ferraro. I fratelli Bruno, il maggiore Ciro, e il capo in seconda Andrea, assurto al rango di capoclan dopo la condanna a vita del fratello, hanno assistito dietro le sbarre alla querelle fra consulenti: se la stima dei beni per i tecnici del pm ammonta a cinque milioni, per i consulenti del collegio presieduto dal giudice Gabriele Perna, quel patrimonio vale non più di 2.500.000 euro, mentre si riduce a un milione di euro per i consulenti chiamati in causa dalla difesa, gli avvocati Cosimo Lodeserto e Vito Epifani.

TORRE S. SUSANNA - Dopo tredici anni di 41 bis Ciro Bruno, boss torrese della Scu due volte condannato all’ergastolo per omicidio, torna nelle aule del tribunale di Brindisi. Il processo è quello che deciderà le sorti del sequestro preventivo che il 15 giugno 2009, con l'OPerazione Canali Money, fece finire sotto sigillo beni immobili per circa cinque milioni di euro, tanto almeno secondo la stima dei consulenti interpellati dal sostituto procuratore Adele Ferraro. I fratelli Bruno, il maggiore Ciro, e il capo in seconda Andrea, assurto al rango di capoclan dopo la condanna a vita del fratello, hanno assistito dietro le sbarre alla querelle fra consulenti: se la stima dei beni per i tecnici del pm ammonta a cinque milioni, per i consulenti del collegio presieduto dal giudice Gabriele Perna, quel patrimonio vale non più di 2.500.000 euro, mentre si riduce a un milione di euro per i consulenti chiamati in causa dalla difesa, gli avvocati Cosimo Lodeserto e Vito Epifani.

La differenza è di sostanza. La stima conclusiva, quella che si evincerà a conclusione del dibattimento in corso, deciderà se quel patrimonio sia stato acquisito illecitamente oppure se sia compatibile con i redditi dichiarati da Giuseppe Bruno e Vincenzo, rispettivamente fratello e nipote di Ciro, semplici prestanome, secondo l’accusa. L’esito del processo quindi sarà determinante per stabilire se il sequestro debba tradursi in confisca oppure no. A vegliare sul tesoro della famiglia è comparso in aula, del tutto a sorpresa, anche il boss di contrada Canali. Quando ha varcato per la prima volta le porte del carcere aveva 31 anni, e forse sapeva che quelle porte si richiudevano alle sue spalle per sempre. Era il 1990, da allora Ciro Bruno sarebbe stato condannato all’ergastolo due volte in una vita sola. Così Ciro Bruno ha vissuto per 13 lunghissimi anni, dal 1992 al 2005, per ritornare alla gogna del 41 bis all’indomani della operazione Canali, in cui sarebbero finiti in manette il fratello Andrea e il figlio Vincenzo, anno Domini 2008.

Restituito al regime ordinario a marzo dello scorso anno, nel carcere di Biella, il boss è attualmente detenuto nel penitenziario di Lecce, per assistere al processo scaturito dalla operazione Maciste, messa a segno dai carabinieri del Ros il 9 settembre 2009, in cui è imputato per il tentato omicidio di  Antonio Palazzo (22 agosto 1989), il tentato omicidio di Cristina Fema (3 settembre 1989) e l’omicidio di Giuseppe Quarta l’11 ottobre 1989, in qualità di esecutore materiale, fatti di sangue che il boss della Sacra corona unita ha sempre negato.

Adesso rischia che il patrimonio di famiglia, edificato sul primo acquisto del padre Vincenzo, gli 80 ettari più la masseria di contrada Canali (l’unica scampata al sequestro), venga sottratto una volta e per sempre alla famiglia. Il sequestro antimafia scattò a giugno 2009, a distanza di un anno dall’operazione dei carabinieri del comando provinciale battezzata con il nome della masseria, il feudo dei Bruno. I militari apposero i sigilli a Torre Santa Susanna, Mesagne e San Pancrazio Salentino, provvedimento emesso dal Tribunale di Brindisi su richiesta del procuratore distrettuale antimafia di Lecce Cataldo Motta e dal pubblico ministero applicato alla Dda Adele Ferraro che, concordando integralmente con l’ipotesi investigativa formulata dal personale dagli investigatori, firmarono il provvedimento. Obiettivo, impedire la sottrazione ovvero la dispersione o la vendita di beni acquisiti attraverso l’utilizzo di danaro proveniente da attività illecite o di riciclaggio.

Sotto sequestro finirono numerosi appezzamenti agricoli, fabbricati rurali, per un’estensione complessiva di circa cento ettari, un’antica masseria edificata nel XVI secolo, dodici trattrici e macchine agricole, autovetture e motociclette di grossa cilindrata, quattro imprese (la cooperativa Agrisud, la cooperativa Sant’Andrea, le ditte individuali Bruno Andrea e Bruno Vincenzo, tutte con sede in Torre Santa Susanna) e conti correnti bancari con depositi pari a 134mila euro. Un tesoro da cinque milioni di euro, secondo la procura che al termine delle indagini stabilì come la titolarità dei beni era stata solo fittiziamente attribuita a fratello e nipote, il cui reddito risultava incompatibile con le reali possibilità di acquisto dei beni. Se l’impianto accusatorio sia fondato oppure no, lo stabilirà il processo in corso. La querelle fra i periti continua nella prossima udienza, fissata per il 19 aprile.

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