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Venerdì, 29 Marzo 2024
Cronaca

Suicidio in camera di sicurezza, la difesa dei carabinieri imputati denuncia ministero e Arma

S. MICHELE SALENTINO - Si suicidò nella cella di sicurezza di San Michele Salentino, dove era stato rinchiuso per aver rubato una bicicletta ad una suora. Moto di ribellione dei tre carabinieri imputati per cooperazione in omicidio colposo, a fronte della presunta omissione dell’obbligo giuridico di impedire che il ragazzo, un cittadino marocchino, si facesse del male: dicono che quella cella era tutt’altro che a norma, e spiegano perché, trasmettendo la memoria difensiva dell’avvocato Vito Epifani alla procura della Repubblica di Brindisi e alla Procura militare di Napoli, in cui si chiamano in causa il Ministero della Difesa e il Comando generale dell’Arma.

S. MICHELE SALENTINO - Si suicidò nella cella di sicurezza di San Michele Salentino, dove era stato rinchiuso per aver rubato una bicicletta ad una suora. Moto di ribellione dei tre carabinieri imputati per cooperazione in omicidio colposo, a fronte della presunta omissione dell’obbligo giuridico di impedire che il ragazzo, un cittadino marocchino, si facesse del male: dicono che quella cella era tutt’altro che a norma, e spiegano perché, trasmettendo la memoria difensiva dell’avvocato Vito Epifani alla procura della Repubblica di Brindisi e alla Procura militare di Napoli, in cui si chiamano in causa il Ministero della Difesa e il Comando generale dell’Arma.

La scelta ha incassato, nell’udienza preliminare di ieri, l’avallo del gup Giuseppe Licci, del procuratore aggiunto Nicolangelo Ghizzardi e degli avvocati difensori delle parti civili, i legali Pasquale Fistetti e Roberto Palmisano. La denuncia, insomma, potrebbe sfociare in indagini a carico dei massimi vertici dell’Arma.

Per il pubblico ministero ce n’è abbastanza per meritare un approfondimento processuale, utile a chiarire se la morte del 22enne marocchino Abdelhafid Es-Saady, poteva essere scongiurata oppure no. Secondo il magistrato inquirente i carabinieri che arrestarono il giovane immigrato avrebbero dovuto vigilare per scongiurare la tragedia. Si tratta del comandante Vito Chimienti, del vice Giuseppe Marrazzo e dell’appuntato Vincenzo Marrazzo.

Accadde il 18 giugno, esattamente un anno fa. Le agenzie stampa divulgarono la notizia, narrando i fatti nudi, al netto di ogni commento. Di quel ragazzo suicida non c’era nemmeno il nome. Tutto quello che si sapeva era che “un cittadino marocchino privo di documenti” si era “ucciso impiccandosi ad una grata della cella di sicurezza”, nella piccola caserma di provincia. Dramma raccontato nel breve volgere di qualche battuta.

“L'uomo era stato fermato - a quanto si è saputo - per aver interrotto un funerale, rubato una bicicletta e per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Secondo una ricostruzione fatta dagli investigatori, l'uomo ha ricavato delle strisce strappando la fodera del materasso che si trovava nella cella di sicurezza e le ha utilizzate per impiccarsi. Quando i carabinieri si sono accorti dell'accaduto l'uomo era già morto. Il sostituto procuratore del tribunale di Brindisi, Silvia Nastasia, ha disposto l'autopsia sul corpo del cittadino marocchino”.

La difesa degli imputati, l’avvocato Vito Epifani è pronta a dimostrare l’assoluta assenza di responsabilità da parte dei propri assistiti. Il comandante, innanzitutto, quel giorno era in ferie. Si trovava in sede solo perché abita, come molti militari, in un appartamento al piano superiore della caserma, ma non era in servizio. Ma c’è di più, molto altro di più. Innanzitutto Abdelhafid Es-Saady fabbricò il suo strumento di morte smembrando il materassino in dotazione nella cella e ricavandone delle strisce che forgiò in forma di cappio.

L’antefatto è che di materassini gemelli erano state dotate anni prima le caserme di tutta l’Italia, salvo poi disporne l’immediato ritiro come si evince anche da un ordine diramato ai comandi carabinieri della penisola intera. Quando? Bizzarra coincidenza: dieci giorni esatti dopo il suicidio a San Michele. Il difensore compara quell’ordine al regolamento che dispone, con assoluto rigore, l’arredo delle celle: “Il tavolaccio, le inferriate, le finestre, la porta, i catenacci, le serrature, le pareti, il pavimento, il soffitto, il campanello d’allarme”. Tavolaccio, dunque, al netto di materasso, federe e affini.

Non è tutto. Nella stessa memoria-denuncia compare una sequenza fotografica che ritrae le inferriate alle quali il 22enne fermò il cappio, stringendoselo al collo e lasciandosi cadere sulle ginocchia. Quella inferriata, dice lo stesso Epifani, avrebbe dovuto avere tutt’altre caratteristiche, e cita la norma del medesimo Regolamento generale dell’Arma, secondo cui lo spazio fra le maglie della inferriata, avrebbero dovuto essere tali da “non consentire il passaggio o l’allacciamento di quanto potrebbe essere adoperato per tentativi di suicidio”.

Ultimo passaggio è un ulteriore allegato, un altro ordine di servizio, di qualche giorno fa, calato dall’alto dei vertici militari alla caserma di San Michele a ridosso dell’udienza preliminare fissata per ieri. Quell’ordine vieta, nero su bianco, l’utilizzo di  quella camera di sicurezza per la detenzione delle persone fermate.

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