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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cultura

"Quell'azzurro ha un solo nome: Brindisi"

La scrittrice brindisina Clara Nubile ci invia dall'India, dove si reca con frequenza arrendendosi alla forte attrazione che esercita su di lei quella terra, un articolo in cui descrive invece cosa la lega all'altro polo della sua vita, Brindisi. E le ragioni che l'hanno spinta a scrivere il suo terzo romanzo.

La scrittrice brindisina Clara Nubile ci invia dall'India, dove si reca con frequenza arrendendosi alla forte attrazione che esercita su di lei quella terra, un articolo in cui descrive invece cosa la lega all'altro polo della sua vita, Brindisi. E le ragioni che l'hanno spinta a scrivere il suo terzo romanzo.

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C’è una sfumatura di azzurro che ti abbraccia, ti accoglie e quasi ti strangola in tutta la sua struggente bellezza, o efficacia. Una sfumatura di azzurro molto particolare, che è quella che scorgi a ogni ritorno, dal finestrino del treno o dall’oblò dell’aereo che plana sul mare, e quasi si vuole schiantare in quella terra liquida.

Ho sempre pensato che veniamo tutti dal mare, noi, e che al mare in qualche modo torneremo. Ma vi raccontavo dei colori, quei colori che muovono la mia scrittura, ad esempio. Che animano i ricordi, allietano la lontananza, rafforzano le radici.

Quando scrivo, ho nelle mani la sensazione delle parole, e queste parole prima di ogni cosa sono colori e sfumature di colore. Chi è nato a sud-est, sa di cosa sto parlando. Ma anche chi è nato altrove, probabilmente, perché la nostra geografia interiore, le nostre latitudini emotive si nutrono di colori.

Mentre scrivo questo articoletto senza pretese, sono seduta a un vecchio tavolo, con le zanzare che banchettano sui miei piedi, e dalla finestra protetta dal tulle color cenere, le palme ondeggiano pigre nella luce caramellata del crepuscolo, in una sera qualunque a Mumbai (Bombay), in India.

Vittorio mi ha scritto, devi proprio amarla molto quella terra, se spesso ci torni. E quale delle mie terre amo? Quali luoghi sono per me casa?  Vivo su due latitudini, che in fondo sono solitudini animate. Fra l’Italia e l’India, come un ponte. Mi sintonizzo su fusi orari ormai familiari, senza fare una piega. Torno, sempre.

Ma c’è solo un posto dove torni in eterno, e dove tutto ti parla con una lingua antica, con quei cieli come macellerie, quei focolari e bracieri dell’infanzia, con le nonne rugose dagli occhi buoni e i fazzoletti in testa, legati sotto il collo, e le calze nere – i gambaletti – anche d’estate, a sfoggiare un lutto che era soprattutto una scelta, una presa di posizione. Come gli ergastolani, e quelli che mai si sono pentiti. I terroristi dell’ideologia.

Ma sto divagando, sto viaggiando su più binari fra spazio e tempo.  Di Brindisi, voglio scrivere. Di Brindisi e del suo cielo. O meglio ancora, del suo azzurro particolare. Ha l’effetto di un balsamo all’eucalipto, come quando hai il naso e la mente chiusa e sniffi quella salvezza odorosa, e di colpo riprendi a ragionare, dormire, respirare.

L’azzurro ha questo effetto su di me, come se mi avessero tappato il cuore e i polmoni, e avessi una museruola alle mani, sì alle mani, perché da lì e soltanto da lì possono venire le parole.

Quando ho iniziato a scrivere Tu come tutto quello che tocchi, che è il mio terzo romanzo pubblicato da Bompiani nel marzo 2012, avevo in mente due cose: doveva essere una storia “maschia”, uno scoglio su cui infrangersi e spezzarsi, tagliarsi; un pezzo di sangue vivo di quel che noi brindisini e limitrofi siamo stati. Un passato prossimo, nel significato più profondo di “prossimo”. Come quando ti chiudi la porta alle spalle, ma sai benissimo che quello che resta dietro l’uscio è.

È sempre là, forse immutabile, forse no. Non volevo scrivere di Sacra Corona Uniti in termini di documentario, cronaca, o fenomeno socio-criminale. A quello ci hanno già pensato, e ci penseranno ancora altri. Io imbastisco storie, cucio personaggi. Romanzi, racconti, queste cose qui, insomma. Passatempi, diciamo.

Io volevo scrivere una sorta di fotoromanzo della S.C.U., del contrabbando e delle sigarette. Di com’era celestina la vita a Marlboro City fra anni Ottanta e Novanta. Di come si spartivano il mare gli scafi, i latitanti, i boss, la finanza, i politici. Le donne, anche quelle. Le donne lecite e illecite, chi aspettava qualcuno dal mare, e chi era il mare. Di quelle vite iaticate in certi anfratti, o di quelle anime sgocciolanti sui fili del bucato. Tutto quello che abbiamo toccato, noi. Tutto quello che siamo stati. Come le cicorie amare, o gli uliveti sterminati, intrecciati come malisangu.

Volevo raccontare quel pezzo di terra, di Storia. Di storie, soprattutto. Di morti ammazzati, pentimenti, segreti, capricci. E le voci dovevano essere impastate di poesia e terra, cattiveria, violenza, eppure delicatezza, quasi innocenza. Perché i personaggi di qualsiasi romanzo, nel bene e nel male, sono tragicamente umani.

E allora ho scritto questa storia, questo romanzo. Sapevo che avrebbe parlato a tutti, ma in particolare a chi quella vita celestina l’aveva vissuta, o anche solo sfiorata. E mi sono chiesta, tante volte, chissà come l’accoglieranno questo romanzo a Brindisi.  E la risposta è stata incredibile. Non soltanto le lacrime di sconosciuti nel pubblico – quei luccichii che niente spegnerà, e che ti danno forza e cemento per altre storie – ma le testimonianze, le confessioni, i tentativi. Il fermento che è poi nato attorno a Tutto come quello che tocchi.

E quando mi chiedono, ma Brindisi è ancora un mostro, come la descrivi?, rispondo con un sorriso. Non c’è amarezza nella lontananza, nel distacco dai luoghi e delle radici. C’è solo zucchero, dolcezza, amore. E Brindisi, ancora una volta mi ha accolto, e mi ha trattato come una figlia lontana con una valigia bizzarra, ingombrante.

E ha abbracciato la mia storia, senza giudizi, ma con grande partecipazione, e credo questo sia il dono più bello per chi scrive: sentire che le tue parole sono state ascoltate da orecchie sconosciute, accarezzate da mani sofferenti. Che tanti brindisini si sono ritrovati in una sorta di storia collettiva, che tanti brindisini lucidano la città, la scrostano dalla polvere del Tempo, e cercano di renderla il più possibile attiva, frizzante. Un fermento culturale che mi ha sorpreso. Che ogni volta mi sorprende.

Ed è stato allora che ho capito che quell’azzurro ha solo un nome: Brindisi.

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