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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Operazione Paradise: l’accusa chiede 160 anni di carcere

BRINDISI – Poco meno di 160 anni di carcere e sanzioni pecuniarie per 460 mila euro. Queste complessivamente le richieste di condanna avanzate dal procuratore generale Giorgio Oliva, durante la requisitoria che ha tenuto banco oggi nel processo d’appello scaturito dall’operazione Paradise, eseguita dalla polizia sette anni fa. Sono 14 in tutto gli imputati inchiodati dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Di Emidio. All’alba dell’11 giugno 2003 finirono nella rete 59 indagati (20 dei quali furono assolti, gli altri scelsero il giudizio abbreviato).

BRINDISI – Poco meno di 160 anni di carcere e sanzioni pecuniarie per 460 mila euro. Queste le richieste di condanna avanzate dal procuratore generale Giorgio Oliva, durante la requisitoria che ha tenuto banco oggi nel processo d’appello scaturito dall’operazione Paradise, eseguita dalla polizia sette anni fa. Sono 14 in tutto gli imputati inchiodati dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Di Emidio. All’alba dell’11 giugno 2003 finirono nella rete 59 indagati (20 dei quali furono assolti, gli altri scelsero il giudizio abbreviato). Solo unas richiesta di assoluzione: quella per il brindisino Luciano Cavalera difeso dall'avvocato Gianvito Lillo.

L’inchiesta, coordinata dal pubblico ministero Alberto Santacatterina, consentì di fare luce sugli affari del clan italo-albanese, che aveva come capi Bullone su Brindisi e l’albanese Elidon Musaj (detto Enrico) nel Paese delle Aquile. Su entrambi pende l’aggravante dell’associazione a delinquere di stampo mafioso (416 bis). Per l’accusa si sarebbero spartiti i ricavi dei traffici di stupefacenti avviati lungo le rotte del Mediterraneo. I due compari avrebbero investito, e guadagnato, anche su altri fronti, gestendo i traffici di clandestini,  lucrando sull’attività di sfruttamento della prostituzione, facendo estorsioni e sanguinose rapine, spargendo alla bisogna sangue nelle tre province di Brindisi, Lecce e Taranto e allacciando preziosi rapporti diplomatici.

Tra gli  indagati, non a caso, comparve anche un console in servizio all’ambasciata albanese a Roma. Dalle intercettazioni emersero responsabilità da parte del diplomatico, accusato all’epoca di aver custodito nell’auto blu e nell’ufficio capitolino, droga e armi. Scampato alla retata grazie all’immunità diplomatica prevista dalla Convenzione di Vienna, secondo l’accusa il console avrebbe garantito a lungo copertura istituzionale ai traffici clandestini oltremare, fino quando gli investigatori non piazzarono cimici dappertutto, scoperchiando gli affari del sodalizio di fuoco, comprese le rapine con spaccata alle gioiellerie.

Una montagna di fattacci, interessi loschi e reati, quella destinata ad emergere dalle intercettazioni ambientali. Un quadro accusatorio che poi avrebbe trovato conferma nelle dichiarazioni rese da Bullone agli inquirenti. Affari, ma anche storie dolorosissime quelle che vennero a galla durante la lunga e complessa attività di indagine. Tra queste quella di Tatiana, una giovane ragazza moldava, all’epoca 22enne, costretta a rapporti sessuali con i componenti dell’associazione, appena sbarcata clandestinamente in Italia, con un bagaglio di sogni e la speranza di una vita nuova.

Durante la  requisitoria, il procuratore generale si è soffermato soprattutto sulla credibilità di Di Emidio, messa in discussione dal pubblico ministero Santacatterina, in sede di primo grado. A giudizio del sostituto procuratore antimafia, Bullone aveva avuto cura di alleggerire il peso delle accuse a carico dei suoi fedelissimi, a partire da Rocco Cannone, il cui coinvolgimento sarebbe invece emerso chiaramente dalle conversazioni intercettate. Ma per il procuratore generale Oliva,  le rivelazioni rese dal collaboratore di giustizia, seppure viziate da omissioni, sono credibili.  Da qui le istanze di condanna proposte a carico dei quattordici imputati.

Le pene richieste, dunque: 24 anni per Marcello Eleuterio Ladu, complice di Bullone nella strage della Grottella, quell’assalto ai due furgoni blindati della Velialpol nei pressi di Copertino, che il 6 dicembre 1999 fece tre morti tra le guardie giurate della scorta, per un bottino di un miliardo e 800 milioni di lire; 20 anni per lo stesso Di Emidio e per il collega albanese Helidon Musai; 18 anni per Njazi Ibisi; 15 anni per il brindisino Pasquale Tanisi; 13 anni per il leccese Antonio Tarantini; 12 anni per Selvija Ibisi; 10 anni per Myfit Musai; nove anni per Pasquale Orlando (detto Yo-yo); sei anni per Andon Lene; quattro anni per Savino Di Lauro; due anni per Teodoro Margherito; un anno e sei mesi per Alessandro De Cesare.

Il  prossimo 25 maggio nuova udienza. E a tenere banco, per le arringhe finali, sarà il collegio difensivo composto dai legali Marcello Tamburini, Gianvito Lillo, Daniela D’Amuri, Giuseppe Lanzalone, Alfredo Cardigliano, Ladislao Massari, Luigi Carrozzini, Luigi Corvaglia, Manfredo Fiormonti, Pantaleo Cannoletta, Salvatore Arnesano e Vincenzo Carbone.

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