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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Salvemini: «Il mio film una testimonianza. Nessuna guerra ideologica»

È raro che questa città e questa provincia diano spazio ai giovani. Simone Salvemini, 39 anni, regista, il suo spazio se lo è cercato, ritagliato, preso. E venerdì scorso all'Impero c'erano 1200 persone alla prima del suo documentario, "Il giorno che verrà”, opera prodotta da "La Kinebottega” in coproduzione con Aiace Brindisi e Metaluna Productions, realizzata con il sostegno della Apulia Film Commission e del Salento Film Fund della Provincia di Lecce. Il film parla di Brindisi, della sua zona industriale e dell'eterno scontro industria-ambiente, ma tra i finanziatori della pellicola non figurano nè la Provincia di Brindisi nè il Comune.

È raro che questa città e questa provincia diano spazio ai giovani. Simone Salvemini, 39 anni, regista, il suo spazio se lo è cercato, ritagliato, preso. E venerdì scorso all'Impero c'erano 1200 persone alla prima del suo documentario, "Il giorno che verrà”, opera prodotta da "La Kinebottega” in coproduzione con Aiace Brindisi e Metaluna Productions, realizzata con il sostegno della Apulia Film Commission e del Salento Film Fund della Provincia di Lecce. Il film parla di Brindisi, della sua zona industriale e dell'eterno scontro industria-ambiente, ma tra i finanziatori della pellicola non figurano nè la Provincia di Brindisi nè il Comune.

Come mai?

«Il contributo era stato chiesto sia alla Provincia che all’Amministrazione Mennitti. Non abbiamo ottenuto nulla».

In compenso avete avuto altri attestati, non solo dal pubblico presente...

“Nel 2011 la sceneggiatura, che è mia e di Barbara Longo, ha vinto il bando “Euro Connection”, consentendo alla produzione di presentare il progetto nell’ambito del Festival Internazionale di Clermont Ferrand (Francia), la più importante manifestazione europea nel settore del cinema breve. Le riprese sono iniziate nell’agosto del 2010 e si sono protratte fino a maggio del 2011».

Cosa avete voluto dire con questo documentario?

«Raccontare quattro storie di brindisini in una città vittima di una scelta precisa, calata dall'alto, che ha condizionato la nostra vita, che non possiamo più ignorare, perché i problemi sono talmente tanto gravi ed evidenti che non si può più ignorarli».

Quando è scattata la molla?

«Sono partito da esperienze personali. In ogni famiglia brindisina ormai ci sono problemi di salute gravi. Io ho vissuto la morte di un parente e di alcuni amici. Per tumore, ovviamente. In quel momento decisi che dovevo esprimere la mia opinione. È passato qualche anno...»

Perché?

«Mi sentivo solo. Quando parli di multinazionali, pur senza puntare il dito contro qualcuno, devi misurare le parole, perché il minimo che ti può capitare è una denuncia. Poi è nato il movimento dei "No al Carbone”, che restano un fenomeno culturale e sociale importante, perché negli ultimi tre-quattro anni volenti o nolenti hanno influenzato la vita sociale di questa città. Poi sono arrivati Roberto Fusco e Riccardo Rossi. Giovanni Brigante già c'era... Insomma, intorno a certe problematiche si è creata una coscienza civile».

Sarà accusato di aver sposato una ideologia.

«Queste non sono battaglie ideologiche: quando si iniziano ad ammalare i bambini, bisogna reagire insieme. Bisogna mettersi insieme e risolvere i problemi, senza arrivare ad una nuova Ilva. Perché dobbiamo arrivare ai casi come quello dell'Ilva, prima di prestare attenzione alla tutela dell'ambiente e della salute?».

Soddisfatto del risultato ottenuto?

«All'Impero c'erano 1200 persone, meglio di così non poteva andare. Ora voglio vedere le reazioni, prima di decidere che seguito dare alla cosa».

Perché proprio un film?

«Perché certi problemi non basta mai mostrarli una volta con un servizio giornalistico o televisivo. C'era bisogno di qualcosa che rimanesse, che avesse un seguito. Un documentario era un modo per fotografare la città in questo momento, con i suoi pregi e difetti».

Cosa voleva dire ai brindisini?

«Che accanto a Brindisi esiste un'altra città, quattro volte più grande, che vive di vita propria, che ha le sue regole, e di cui i cittadini non sanno quasi nulla. Questo non vuol dire fare la guerra alle aziende o rinunciare ai posti di lavoro. Ed ho voluto raccontare la nascita di una crescita sociale».

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