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A cura di Blog Collettivo

Vitivinicoltura del passato a Brindisi: una testimonianza preziosa   

Michele Miraglia ha intervistato l'agronomo Marco Mitrotta, profondo conoscitore della realtà vitivinicola brindisina

Pressati dalle incombenze del presente e con l’attenzione rivolta costantemente al futuro, ci dimentichiamo spesso del nostro passato, senza considerare che la conoscenza degli eventi trascorsi ci aiuta a capire meglio la realtà attuale. Questa riflessione di carattere generale assume validità se ci soffermiamo ad esaminare un settore specifico, tanto rilevante per la storia brindisina: l’economia vitivinicola a partire dal nuovo secolo. Confrontando gli attuali sistemi di conduzione del vigneto, le modalità di coltivazione, la piattaforma varietale e gli interventi nella fase di trasformazione del prodotto, con quelli, profondamente diversi, del passato, viene spontaneo chiederci quale fosse la base di partenza della vitivinicoltura praticata fino al secolo scorso a Brindisi. Una prima sostanziale differenza rispetto al passato risiede nei diversi passaggi della filiera, dalla produzione delle uve, alla trasformazione in vino per finire con la commercializzazione del prodotto, un tempo realizzati da distinte figure fisiche ed economiche, adesso, quasi sempre in capo ad un unico imprenditore.

Per una conoscenza più dettagliata di come era praticata la vitivinicoltura nella seconda metà del secolo scorso a Brindisi è sufficiente ascoltare la testimonianza di un noto professionista ed imprenditore agricolo, profondo conoscitore della realtà vitivinicola brindisina, il dott. Agronomo Marco Mitrotta, già protagonista delle varie vicende che hanno interessato il settore. A lui sono rivolte le seguenti domande, ricevendo importanti informazioni e riflessioni su alcuni dei quesiti posti:

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Il sistema di allevamento della vite per uva da vino più diffuso nel territorio era l’alberello pugliese, per quali ragioni venivano utilizzati quei sesti di impianto sulle varietà impiegate, quali erano le loro caratteristiche ed in che rapporto numerico si collocavano tra loro? 

Il sistema di coltura della vite, tradizionale del passato nel Salento, era l’alberello pugliese, caratteristico per la forma bassa, umile della pianta, povera di gemme a frutto e con produzione delle uve modeste – ma notevoli nei terreni fertili e profondi del comprensorio brindisino – indirizzate alla qualità del prodotto finito del vino, sempre corposo, completo e complesso nel suo insieme. Il sesto di impianto difficilmente superava la larghezza di mt.1,70 nell’interfilare, mentre sulla fila la distanza era di mt. 0,80-1,00 con un’incidenza di ceppi per ettaro di superficie variabile tra 6.500 e 5.500, a seconda della conformazione geometrica dell’appezzamento.  Per le uve rosse, da sempre preferite e coltivate in maggior percentuale, le varietà impiegate erano Negro-amaro, Malvasia nera e Somarello (Susumanieddu), in proporzione tra loro, rispettivamente, di 4/2/1 filari per ogni appezzamento.

I “filtrati dolci” erano una prerogativa della vitivinicoltura brindisina, molto ricercati per migliorare le caratteristiche di vini meno dotati, prodotti altrove. Che informazioni può fornire a riguardo?

I “filtrati dolci” hanno certamente rappresentato una significativa eccellenza delle produzioni vitivinicole brindisine per la loro specificità: erano fondamentalmente dei mosti-vino con un leggero tasso alcolico (pochi gradi, 5-6 al massimo) e con un’alta concentrazione di zuccheri, di saccarosio dovuta alla presenza di uva appartenente alla varietà Malvasia nera nel vigneto di provenienza. Mostravano soprattutto un’altra caratteristica/qualità: quella di non avere alcuna marcatura, di essere, cioè, neutri e tali da non trasmettere alcuna propria particolarità ai vini che andavano a migliorare e a questi ultimi poi permettere di conservare la loro tipicità ed i caratteri del loro territorio.

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Le lavorazioni al terreno, nei vigneti, in massima parte venivano eseguite dai cavalli, animale quasi ‘sacro’, ospitato spesso in casa dai coltivatori-padroni, come un componente familiare, mentre per i lavori di rifinitura presso il ceppo si utilizzava la zappa. Quali particolari ricordano quelle usanze: i tentativi di introdurre nuove varietà di uve da vino; la sperimentazione del “tendone” nei nuovi impianti; il ricorso all’uso dei diserbanti chimici, con un forte impatto ambientale sui terreni e sulla falda?

Le lavorazioni al terreno erano dettate dalla necessità di coltivare il suolo per arieggiarlo, creare vuoti per immagazzinare acqua, movimentare e permettere la degradazione delle sostanze nutritive, controllare lo sviluppo delle erbe infestanti: in definitiva, per creare le migliori condizioni all’apparato radicale ed alla vita di ceppi. Tutto questo avveniva nell’interfilare con il ricorso all’utilizzo del cavallo come forza motrice (prima/nel passato, oggi con il trattore) ed a seguire poi con la zappa sul filare tra i ceppi per il completamento dell’intervento sull’intera superficie a vigneto.  Le lavorazioni avvenivano in tempi diversi, a seconda dello sviluppo vegetativo delle piante e dell’andamento dell’annata agraria, e, ancora, erano dettate dalla necessità di combinarsi con altri interventi utili, come la lotta antiparassitaria. Il ricorso a nuove varietà di uva rossa, soprattutto, avvenuto ad inizio degli anni ’70, è stato contenuto a livello di sperimentazione, in quanto nei nuovi impianti si preferiva utilizzare le varietà tradizionali, già citate. Il “tendone”, diffuso nelle aree viticole del tarantino e foggiano, non ha trovato applicazione nel brindisino, salvo qualche raro tentativo, rimasto isolato. L’uso dei diserbanti/erbicidi totali per la eliminazione delle infestanti nel terreno era ancora poco praticato negli anni ’60-’70: al più per il controllo delle malerbe si faceva ricorso ai disseccanti, che non lasciavano residui tossici.

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Intorno al centro abitato, dove erano ubicati i migliori terreni per uve di qualità ed anche a distanza dal centro era diffusa la piccola e media proprietà coltivatrice brindisina, specializzata nella cura della vigna, tramandatasi secondo una tradizione secolare. Economicamente benestante si diceva avesse dato origine al ceto professionistico cittadino. Parte delle uve prodotte dai coltivatori diretti e da altri venivano conferite ai numerosi stabilimenti vinicoli, di media grandezza, sparsi in città. Con quali risultati?

Nel territorio brindisino era piuttosto comune la proprietà diretto coltivatrice con superfici di terra che difficilmente superavano i cinque ettari. La coltura leader praticata era naturalmente la vite con vendita del prodotto a vinificatori locali e/o al massimo delle provincie vicine (Lecce, soprattutto), mentre le famiglie benestanti, in possesso di superfici vitate più consistenti, intorno ai 15/20 ettari e più, possedevano stabilimenti vinicoli per la lavorazione delle proprie uve e di altre acquistate, indirizzando la parte migliore della produzione alla preparazione dei filtrati dolci. In tale contesto trovavano spazio  ed operavano commercianti e grossi vinificatori settentrionali (lombardi e piemontesi, in particolare), che spedivano, a mezzo di autotreni nelle loro zone di origine, grandi quantitativi di uva da vinificare, dell’ordine di migliaia di quintali, in teloni od anche in cassette.

La gran parte delle uve, tuttavia, era trasferita nei numerosi stabilimenti sociali dislocati nel territorio, secondo criteri non sempre economici, ma spesso per assecondare gli orientamenti politici dei promotori. Accanto alle cooperative ‘rosse’ con consigli di amministrazione di tendenza socialcomunista, come la “Risveglio Agricolo”, l’unica Cantina sociale sopravvissuta alle altre scomparse da tempo, si collocavano, pertanto, le cooperative ‘bianche’, di tenenza democristiana, quelle promosse dall’Ente di Sviluppo Agricolo ed a seguire le altre. Era opinione corrente che i produttori in genere vendessero la parte migliore delle uve a compratori esterni, trasferendole a destinazione ad es. in cassette di legno, mentre il resto del prodotto, non sempre di eccellente qualità, veniva conferito alle cooperative per la vinificazione. Quanto di vero c’era in questa affermazione e quali erano i limiti dell’ampia diffusione delle cooperative vinicole nel territorio?  Certo non va sottaciuto il grande merito avuto dalle Cantine sociali nella difesa degli interessi dei coltivatori, sottratti alla speculazione dei profittatori nella fase di raccolta di un prodotto deperibile, come l’uva, ma questi indubbi meriti sono sufficienti a colmare le lacune dimostrate dalle stesse, ad es. nella mancata valorizzazione del prodotto finito, nonostante Brindisi avesse ottenuto la DOC dal 1976?

A partire dalla seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso, su promozione dell’Ente Riforma Fondiaria ed in linea con i suoi compiti istituzionali, si assiste in quasi tutti i paesi della provincia alla realizzazione di stabilimenti vinicoli e dove è presente in maniera marcata l’olivo si procede anche alla costruzione di opifici per la lavorazione delle olive. Questo nuovo modo di organizzare l’agricoltura su base cooperativistica sicuramente rappresenta una svolta epocale nell’esercizio dell’attività agricola con ripercussioni enormi sul piano economico e sociale non solo nel settore specifico, ma per l’intera collettività. Va pure sottolineato il fatto che nella stessa epoca, scontata la grande importanza economica e sociale delle cooperative, considerate grossi bacini di voti, sono state realizzate cantine ed opifici con colorazione politica, promossi e voluti dai partiti. Va poi aggiunto che dalle cooperative di primo grado in seguito si è passati agli organismi di secondo grado, ai consorzi, pure presenti nel brindisino, ma con risultati deludenti.

I luoghi di spedizione dei cosiddetti ‘vini da taglio’ salentini contraddistinguevano, molto spesso, il vino commercializzato, conosciuto pertanto per il luogo di spedizione, anziché  per il vitigno o la composizione dei vitigni: così il nome “Brindisi”, dove l’esportazione del vino avveniva anche via mare da Brindisi, indicava tutto il vino prodotto in loco e nelle vicinanze; Squinzano, rappresentava parte della produzione del leccese e Manduria, designava il vino prodotto nel tarantino, nell’area del ‘primitivo’. Quali erano le caratteristiche dei vini della zona indicata, preferite dai compratori e quali le destinazioni del prodotto?

Negli anni ’70, le aree di produzione più rappresentative delle tre provincie salentine, per la loro tradizione viticola, caratteristiche del territorio, varietà dei vitigni e dei vini, erano Brindisi, Squinzano e Manduria. In tali aree la coltura della vite e la cultura del vino costituivano non solo l’economia, ma la storia, la vita sociale e la stessa anima delle popolazioni che con il vigneto, con i ceppi vivevano in simbiosi ormai da millenni. Quei vini trovavano, poi, collocamento in grandi quantità sui mercati esteri, Germania e Francia, soprattutto.  In proposito è opportuno precisare che la dizione “vini da taglio”, pur avendo accompagnato da sempre la nostra produzione di vini, è impropria e limitativa, in quanto non considera interamente il loro valore. Infatti, essere “vini da taglio” e permettere la correzione di altri vini non era la loro unica destinazione, non stava a significare che non potevano essere bevuti e/o utilizzati in altro modo, piuttosto si riconosceva loro quella completezza e capacità di migliorare vini scadenti, anonimi, trasmettendo non solo zucchero, gradi alcolici, ma anche requisiti di gradevolezza.   Nel passato, fino ad alcuni decenni addietro, il vino “si faceva” in campagna e risultava essere il prodotto finale di un processo iniziato nella primavera passata con la ripresa vegetativa delle viti e terminato negli stabilimenti vinicoli, conservando tutta la naturalità di quanto nel frattempo avvenuto sui ceppi e manifestando poi le uve – con la trasformazione in vino e successiva maturazione – tutto ciò che aveva acquisito nel corso del ciclo annuale.

Quando si manifestarono le persistenti flessioni della domanda con i conseguenti cedimenti delle quotazioni di mercato dei vini prodotti nelle nostre località, con relativo accumulo di vino invenduto, giacente nei depositi degli stabilimenti vinicoli e delle cantine sociali, gli abituali compratori dei vini tradizionali salentini vennero meno e si dileguarono, anche quelli che in passato avevano acquistato grandi tenute agricole per coltivare i vigneti tipici del territorio, sfruttando manodopera locale con contratti di colonia parziaria, come ad es. ‘Le Bonifiche Ferraresi’ a San Pietro Vernotico.  Quali conseguenze per le nostre realtà hanno comportato quei fatti?

I risultati della situazione da lei descritta furono le misure della politica europea, attuate in quella fase, a sostegno dei mercati, attraverso l’intervento dell’AIMA e con il ricorso alle distillazioni ed agli stoccaggi per risolvere il problema delle grosse quantità di vino invenduto nelle cantine. Tali misure se da una parte misero in campo risorse economiche notevoli in quei momenti di difficoltà, dall’altra segnarono l’inizio di un processo che si concluse con la smobilitazione dell’apparato produttivo vitivinicolo brindisino, attuato mediante la concessione da parte della UE di consistenti premi in danaro ai produttori dopo l’estirpazione dei vigneti. Quegli interventi determinarono la scomparsa di molte migliaia di ettari di vigneto nel territorio e la parallela chiusura dei numerosi stabilimenti vinicoli cittadini.   Rappresentò quella, parlo degli anni ’80-’90 del secolo scorso, una svolta storica per la viticoltura brindisina con conseguenze nefaste sul piano occupazionale, innanzitutto, sul piano ambientale e del paesaggio, alterato, ed in generale per tutta l’economia brindisina.

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