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Venerdì, 26 Aprile 2024
BrindisiReport

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Redazione

Quando dalle nostre parti arrivarono gli Elleni: chi erano i "figli delle vergini"

Nell'VIII a.C. la terra di Calabria (attuale Salento) viene colonizzata dai Parteni, invasori arrivati da Sparta. Nuovo capitolo di storia brindisina a cura di Nazareno Valente

È uno dei tanti campi minati della storia cittadina, forse superato solo dai racconti dozzinali che la nostra cronachistica somministra sulla casa di Virgilio. Parlando di quest’ultima mi sono sentito apostrofare in malo modo, avendo osato riportare che la cosiddetta casa del poeta non può esserlo mai stata, constatato che è di evidente origine medievale. Chissà quali graziosi apprezzamenti, magari accompagnati da lazzi e frizzi assortiti, mi guadagnerò in quest’altra occasione, violando un altro tabù delle leggende locali. È il minimo che si rischia quando non si seguono le vie già più volte percorse o non si propinano gli scontati ritornelli che, ripetuti all’infinito, diventano proprio per questo verità assolute. 

Comunque sia non rinuncerò a confessare un qual certo malessere nel riascoltare quelle ricostruzioni posticce che fanno il paio con i romanzi ottocenteschi — tipo, “La capanna dello zio Tom” o “L’ultimo dei Mohicani”, con cui si cercava di far passare che l’unico “selvaggio” buono era quello addomesticato — che chiamano la nostra terra Messapia e, ancor più, quando arrivano a considerarla contrada della Magna Grecia. Mi fa infatti strano pensare che noi brindisini, pur avendo a disposizione tante possibili autonome glorie passate, continuiamo a coltivare, quale massima espressione delle nostre antiche tradizioni, i termini usati da altri o, peggio, i modelli di vita da loro imposti. Quasi dovessimo subire in eterno una ineludibile sudditanza culturale e terminologica al mondo costruito dai colonizzatori greci. Quella sudditanza che, invece, i nostri concittadini d’una volta non pativano neppure un po’, visto che con i Greci commerciavano, combattevano, stipulavano trattati ma sempre su un piano di parità. Fieri delle proprie origini e specificità.

Altri hanno superato la sindrome dello zio Tom. Noi invece ci siamo ancora invischiati e forse sarà per questo che, mentre la Brindisi di quel lontano passato riusciva a ritagliarsi sempre ruoli di rilievo, quella attuale si dibatte in eterni problemi irrisolti. Sassolini polemici a parte, è incontestabile che da noi si vada in brodo di giuggiole a sentirsi chiamare Messapi, chissà quale grande privilegio una tale denominazione conferisca. Al contrario, i Brindisini dei tempi antichi mal sopportavano un tale nome, non essendo quello scelto da loro e che altri, nella fattispecie i Greci, tentavano d’imporre. Ed il fatto stesso che il mondo latino lo abbia messo al bando, proprio per rispetto delle tradizioni locali, è un convincente indizio di come non fosse per niente gradito ai nativi. 

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Pertanto in antichità le denominazioni accolte ed in uso da parte dei nostri concittadini erano quelle da loro stessi coniate. Così l’attuale penisola salentina veniva chiamata Calabria, e non Messapia  — che era appunto il coronimo usato solo dai Greci, come dichiarato in maniera esplicita da Strabone («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες», «Gli Elleni la chiamano Messapίa») — e coloro che vi abitavano non erano Messapi, ma Calabri o Sallentini, a seconda delle zone in cui risiedevano. In definitiva credo che, come i Brindisini del passato, dovremmo privilegiati i termini indigeni, non fosse altro perché legati alle nostre origini e derivanti da un’autonoma preferenza. Malgrado ciò, non disconosco certo che il mondo ellenico non abbia influenzato anche positivamente quello iapigio, soprattutto gli Iapigi nostri corregionali stanziati nell’antica Calabria, tuttavia senza fagocitarli o annullarli. Come invece avvenne in altre parti del Meridione d’Italia, ad esempio in Campania, in Sicilia e nell’allora Bruzio (attuale Calabria) dove, al contrario, le popolazioni locali furono del tutto estromesse e fatte sparire dalla storia.  

I primi contatti con il mondo greco

Inizialmente gli Elleni — per lo più Eubei — seguivano le rotte dell’Adriatico soprattutto alla ricerca dei metalli e della preziosa ambra e, a differenza di quanto avvenne nel versante ionico e tirrenico, non imposero né «empόria» (luoghi appositamente controllati per fare commercio), né «apoikía» (colonie). Si ha tuttavia motivo di credere che questo modo mite di fare non fosse una concessione del tutto spontanea o dovuta al loro buon cuore. Anche se gli Eubei passano per romantici “capitani coraggiosi” e, tra tutti i viaggiatori dell’antichità, quelli con cui era preferibile avere a che fare, perché meno portati alle maniere forti, tuttavia, quando le condizioni lo rendevano possibile o necessario, non disdegnavano anch’essi la mano pesante o gli espedienti più bassi, pur di prevalere. Le fonti letterarie ci fanno infatti sapere che non avevano avuto nessun riguardo a scacciare con la violenza gli Opici da Cuma e dalle fasce costiere campane. Con i Siculi s’erano comportati anche peggio: avevano fruito del loro aiuto per strappare Lentini agli indigeni, con la promessa solenne che li avrebbero lasciati vivere tranquilli nelle loro case. Poi, però, per non violare i patti, s’erano serviti dei Megaresi, desiderosi di trovare un luogo in cui stabilirsi, per scacciarli. Nottetempo, avevano aperto ai Megaresi le porte della città indicando dove risiedevano i Siculi, sicché questi, disarmati e presi di sorpresa, furono facilmente sopraffatti e messi in fuga. In pratica si liberarono degli ospiti indesiderati, senza però farlo in prima persona così da tener fede, almeno formalmente, alla promessa fatta.  Non contenti, completarono l’opera liberandosi pure dei Megaresi, sempre tramite un altro ingegnoso stratagemma. 

A quei tempi le furbizie erano all’ordine del giorno ed i Greci, riuscendo ad escogitarne sempre di nuove, erano giustamente considerati maestri insuperabili. Non a caso i Romani diffidavano di loro, soprattutto quando si presentavano con un dono, come appunto Virgilio faceva affermare a Laoconte, di fronte al celebre cavallo abbandonato sulla spiaggia di Troia, «Timeo Danaos et dona ferentes». Il fatto è che gli Elleni, quando avevano a che fare con gli altri (i cosiddetti barbari), non si sentivano moralmente coinvolti. L’inganno veniva adottato spesso e volentieri, e faceva parte degli strumenti più utilizzati per prevalere: consentiva nel contempo di infrangere i solenni accordi presi senza timore di incorrere nell’ira degli dèi, anche questi per certi versi uomini di mondo e, quindi, più interessati al rispetto delle forme che alla sostanza delle cose. In fondo queste astuzie costituivano un’ulteriore prova della superiorità dei Greci nei riguardi delle comunità con cui venivano in contatto. 

In definitiva il rispetto con cui gli Eubei — ma pure altri loro connazionali, tipo i Corinzi — trattarono i Calabri di Brindisi e di Otranto era piuttosto diretta conseguenza del valore guerriero di queste popolazioni, oltre che della loro solidità sociale che induceva a privilegiare il dialogo rispetto al diverbio. Qualunque ne siano stati i reali motivi, all’atto pratico e diversamente dal solito, i commercianti elleni che frequentavano Brindisi e le altre comunità del litorale adriatico non adottarono mai un atteggiamento aggressivo, preferendo instaurare rapporti di reciproco rispetto che consentivano scambi commerciali condotti in un clima di piena parità. Di questa atmosfera pacifica se ne ha un riverbero nella considerazione che il mondo ionico-attico aveva per le popolazioni delle nostre terre che, non a caso, venivano accreditate, al pari dei soli Etruschi, di antiche e nobili origini e di conseguenza poste su un diverso piano rispetto agli altri ambienti italici. Per la nostra città, addirittura, c’era una vera e propria corsa nell’attribuirle genesi desumibili dalle più svariate zone della Grecia, riconoscendole così quarti di nobiltà che s’assegnavano solo alle cittadine più illustri. 

Morale della favola, agli occhi degli Eubei, i Brindisini non assumevano le sembianze del barbaro destinato ad interpretare ruoli marginali, quanto piuttosto quelle d’un valido interlocutore con cui era più conveniente trattare che litigare. Da ciò derivò, come naturale conseguenza, che la presenza ellenica di quel periodo non ebbe un semplice significato mercantile ma sfociò pure in proficui rapporti di altra natura, che consentirono alle popolazioni locali di trarre beneficio da una civiltà senza dubbio caratterizzata da una dinamica economica e sociale più esuberante e composita. Il che fece emergere un’entità culturale differenziata rispetto al restante panorama iapigio. Appunto quella rappresentata dalla Calabria e dai suoi abitanti Calabri e Sallentini che, va sottolineato, in quel periodo tra il IX e l’VIII secolo a.C. avevano esteso la loro zona d’influenza ben oltre gli attuali confini della penisola salentina, occupando il litorale ionico sin quasi nei pressi di Crotone. Proprio in quei luoghi, a quell’epoca facenti parte del Bruzio, si evidenziarono i primi attriti tra Elleni e Iapigi Calabri, di cui i Brindisini erano l’espressione più significativa.

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Contrasti questi di cui si viene a conoscenza grazie ad un accenno di Eforo, ripreso dal geografo Strabone nel narrare la fondazione di Taranto. Quando i futuri fondatori della città ionica arrivarono infatti sul posto, trovarono gli Achei impegnati a guerreggiare con i «barbari». Barbari che non è difficile identificare nei nostri progenitori Calabri, considerato che lo stesso Eforo li dava stanziati appunto sin nei pressi di Crotone, poi divenuta possedimento acheo. «Dopo aver condiviso con gli Achei i rischi della guerra – ci fa sapere in aggiunta Eforo – fondarono Taranto». 

Arrivano i colonizzatori

Siamo ormai verso la fine dell’VIII a.C. ed ai mercanti dell’Eubea e di Corinto si aggiungono altri loro connazionali che, non solo hanno fame di terra, ma in più ritengono naturale strapparla agli indigeni, in forza del fatto che sono Elleni, quindi gli unici che possono ritenersi davvero liberi. Gli dèi hanno infatti deciso il destino di ciascuno. E se agli Elleni spetta comandare; ai barbari tocca subire ed accontentarsi d’essere relegati a funzioni subalterne. Erano questi i pensieri dei fuoriusciti spartani, mentre si accingevano ad approdare sul litorale ionico che rappresentava la loro terra promessa. Anche se essa era già abitata da altri (lo premettiamo, dai Brindisini, il cui territorio andava ben oltre l’attuale Salento), poco importava: l’oracolo di Delfi l’aveva espressamente destinata a loro. E quei barbari che li guardavano, cercando di intuirne le intenzioni, avrebbero dovuto farsene una ragione. Piacesse o non piacesse.

Con gli Eubei i Brindisini erano riusciti ad instaurare rapporti amichevoli mentre con i Parteni, che arrivavano da Sparta, la questione si presentò sin dagli inizi molto più difficoltosa. Già le motivazioni erano diverse — a differenza degli Eubei che volevano commerciare, i Parteni andavano in cerca di terra da sottrarre agli indigeni — ma pure l’indole giocò un ruolo non indifferente. Gli Spartani non erano ben visti neppure nella stessa Grecia, incutendo timore e rispetto sia per le loro doti militari fuori dal comune, sia per il modo sbrigativo di fare che li spingeva a cercare soluzioni di forza più che di dialogo.

Se gli Elleni in genere non avevano nessuno scrupolo morale a trattare i barbari come esseri inferiori, gli Spartani andavano anche oltre, non essendo per loro un problema di coscienza neppure il rendere schiavi gli stessi connazionali. L’avevano già fatto quando s’erano insediati in Laconia ed avevano proseguito quando avevano assoggettato la Messenia, riducendo in condizioni servili vasti strati di popolazione che lì risiedevano. I popoli così asserviti costituivano la classe più miserevole della società spartana, che la maggior parte degli storici identifica con gli Iloti d’epoca classica, vale a dire gli schiavi che si differenziavano da quelli usuali (schiavi-merce) per il fatto che non potevano essere alienati da chi li utilizzava, in quanto l’effettivo proprietario era lo Stato. Il loro compito principale era di coltivare la terra cui erano legati a somiglianza dei servi della gleba, mentre l’èlite spartana (i cosiddetti Spartiati) si dedicava alla politica, alla guerra ed alle attività venatorie. 

Gli Iloti erano quindi impegnati a svolgere in prevalenza lavori agricoli subendo una schiavitù ben più dura di quella usuale. Lo Stato spartano, loro padrone, li costringeva a subire le più degradanti vessazioni che facevano parte della prassi instaurata per indurli a percepire il totale disprezzo che si aveva delle loro persone e, al tempo stesso, per costringerli a stare sempre sotto tensione e a non dimenticare che per loro non ci sarebbe mai stata pietà. Per essere individuati e controllati sempre con estrema facilità, gli Iloti erano così obbligati ad indossare un abbigliamento standardizzato, composto da una tunica di pelle di animale («diphtéra») — che ricordava l’antica divisa dei contadini — ed un cappello di cuoio («kunée»). E, tanto per gradire, subivano ricorrenti fustigazioni e, annualmente, i magistrati spartani (gli efori) dichiaravano loro guerra, rendendo legali le loro uccisioni da parte di squadre di giovani («criptie») che li cacciavano senza alcuna indulgenza.

Allora era naturale che i Greci asservissero i barbari

Questa esasperazione della condizione servile destava l’ammirazione dell’ateniese Crizia il quale considerava che in tal modo, essendo a Sparta gli schiavi più schiavi del solito, i liberi potevano considerarsi maggiormente liberi. Certo Crizia era un oligarca, e quindi non dimorava nel campo democratico ma, in fondo, anche chi si professava tale, riconosceva che in genere solo i Greci erano nati per non subire l’autorità altrui, a differenza degli altri popoli che erano destinati ad essere soggiogati. Gli Spartiati radicalizzavano ancor più questo concetto, ritenendosi gli unici esentati da qualsiasi vincolo, facendo parte della ristretta cerchia degli «Hómoioi» (Pari o Uguali). Occorre ricordare che in quel periodo (VIII secolo a.C.) non destava particolare stupore questo loro angariare gli stessi greci, visto che tutti gli altri compatrioti, pure quelli che frequentavano gli ambienti più colti e progressisti, non disdegnavano di schiavizzare i barbari. Nonostante secoli dopo, la condotta degli Spartani di asservire altri Elleni diventò disdicevole e poco accettabile, analoghe considerazioni non furono mai estese agli schiavi stranieri. Ne è un tipico esempio Euripide che, pur dimostrando una certa compassione per gli schiavi e per i barbari, fa tuttavia dire ai suoi personaggi che «un barbaro non sarà mai amico dei Greci e non potrebbe esserlo» e, più in generale, che «i barbari sono tutti schiavi tranne uno solo» (intendendo il tiranno che li comanda) sino a far affermare ad Ifigenia in maniera esplicita che «è naturale che i Greci comandino sui Barbari e non i Barbari sui Greci, essi infatti sono schiavi, noi invece liberi». Ed Euripide non era certo una voce isolata. Platone arriva persino ad affermare che i barbari sono i naturali nemici del mondo greco e che contro di essi le guerre non vanno interrotte con la vittoria militare ma proseguite sino al loro totale annientamento.

Se d’una simile posizione si rendeva interprete un fine filosofo, possiamo solo immaginare cosa frullava nella testa degli Spartani, che facevano dei fatti d’arme e della prevaricazione sociale la loro ragione di vita, quando arrivarono dalle nostre parti alla ricerca della terra loro promessa dalla Pizia. Oltre a considerare quale triste destino si stava prospettando per i Brindisini, ai quali non sarebbe potuta toccare sorte peggiore: tra tutti gli invasori possibili, a loro spettavano quelli di gran lunga più guerrafondai e più intransigenti.

Chi erano gli invasori delle nostre terre

E, se questo non era già sufficiente a far tremare i polsi, s’aggiungeva la considerazione che i prossimi fondatori di Taranto ce l’avevano con il mondo intero, ritenendo di aver subito una palese ingiustizia nell’essere stati costretti a mettersi per mare alla ricerca d’un futuro. Quel futuro che gli era stato negato in patria perché, non godendo degli stessi privilegi degli altri cittadini spartani, non potevano essere assegnatari d’una frazione di terra pubblica («klêros») che avrebbe garantito loro una vita dignitosa. È questa una delle poche cose certe che si sa di loro, oltre al nome con cui li si individuava, Parteni, letteralmente «figli di vergini». Cosa un appellativo del genere significasse per davvero nell’impenetrabile società spartana, ed il perché del suo uso, fanno parte dei tanti dubbi non del tutto risolti, anche se le storielle che girano sul tema assecondino soluzioni semplicistiche che rendono al contrario tutto chiaro.

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Sparta rappresentava un grande enigma anche per gli autori contemporanei, figuriamoci quanto incomprensibile possa apparire quasi tremila anni dopo. Per questo, indagare sulla reale natura di questi Parteni ha sempre creato grossi grattacapi. Già mandava in crisi gli storici antichi del periodo classico e, a maggior ragione, quelli moderni, che comunque studiano con passione l’argomento. Come si svolsero effettivamente i fatti resterà con ogni probabilità un mistero e, allo stato attuale, è solo possibile formulare delle ipotesi, la cui attendibilità potrà essere messa in ogni caso in discussione. Anch’io ne tenterò una, basandomi sulle fonti letterarie. Vedremo così in sequenza: come si possono inquadrare i Parteni nello scenario sociale spartano; perché si trovarono costretti a migrare; il motivo che li guidò proprio dalle nostre parti e, infine, cosa comportò per le genti della Calabria salentina questo loro improvviso apparire.

Della società spartana si sono sin qui mostrate le posizioni estreme. All’apice della scala sociale, abbiamo collocato gli Spartiati, o gli «Hómoioi»; sul gradino più basso gli Iloti. C’era un’altra posizione nota, intermedia alle due: la classe dei Perieci i quali, come gli Iloti, facevano parte delle popolazioni vinte ma, rispetto a questi, godevano di una posizione di privilegio in quanto avevano collaborato con gli invasori spartani. Ma le categorie non si esaurivano qui – ad esempio le fonti citano i «Móthones», i «Móthakes» ed i «Trophimoi» e altre venivano create in maniera contingente, tipo i «Brasidei» ed i «Neodamodi». Il che fa presupporre avanzamenti e retrocessioni — anche se i diritti era più facile perderli che conquistarli — ed una mobilità sociale entro cui è possibile inquadrare i Parteni. 

L’essere Spartiati conferiva tutti i possibili diritti ma imponeva pure gravosi obblighi da rispettare in maniera minuziosa, pena la perdita del rango. E bastava il più piccolo tentennamento o la minima pecca a macchiare il pedigrèe ed a comportare un declassamento, tanto è vero che solo gli Spartani più specchiati avevano diritto ad un tale titolo. Va inoltre precisato che, sebbene i termini di Spartiati, Spartani e Lacedemoni si usino spesso in alternativa, essi hanno in specifici contesti accezioni diverse, in particolare quando lasciano intravedere le tracce di una struttura piramidale in cui erano ripartiti i vari cittadini di Sparta. Senza troppo dilungarci, ma solo per rendere più comprensibile quanto si dirà nel prosieguo, parlare di Spartiati vuol dire indicare i cittadini che godevano con certezza di tutti i diritti, fossero essi civili o politici, mentre parlare di Lacedemoni può voler dire comprendere anche i cittadini che godevano solo in maniera parziale degli stessi diritti.

I Parteni, secondo Antioco

La fonte più antica che parla dei Parteni è un frammento di Antioco, storico siracusano del V secolo a.C., ripreso da Strabone. Si tratta d’un brano che non si può certo dire un modello di chiarezza, non si sa se per colpa di Antioco stesso o del sunto fatto dal geografo pontico. Comunque sia, così Strabone riferisce l’opinione di Antioco che sta narrando della fondazione di Taranto: «al tempo della guerra messenica [che durò quasi venti anni nella seconda metà dell’VIII secolo a.C.], i Lacedemoni che non avevano preso parte alla spedizione furono, in virtù d’un giudizio, ridotti alla condizione di schiavi e vennero chiamati iloti; allo stesso tempo, tutti i figli nati durante la spedizione furono chiamati Parteni e privati dei diritti di cittadinanza».

In pratica, Antioco racconta che nel corso della guerra messenica vi furono Lacedemoni che disertarono e, per questo, furono ridotti al rango di Iloti. Per quanto riguarda i Parteni, egli afferma che erano i nati a Sparta nel periodo di svolgimento della spedizione per la conquista della Messenia e, quindi, quando tutti i cittadini spartani adulti erano al fronte. In altre parole, secondo Antioco, i Parteni erano i figli avuti da donne spartane, sposate o vergini, al di fuori d’un legittimo matrimonio, oppure da quelle coniugate con i Lacedemoni defezionisti che però, in quanto tali, non erano più considerati cittadini. In definitiva, essi erano figli illegittimi o figli di schiavi e, per tali motivi, furono privati dei diritti di cittadinanza.

Parrebbe a questo punto che l’appellativo di Parteni (come detto, «figli di vergini») loro affibbiato fosse in qualche modo canzonatorio, considerato che erano stati in genere concepiti da donne sposate con altri, oppure nubili. Va sottolineato che l’ipotesi più accettata è in parte differente da quella da me qui proposta. Essa prevede, innanzitutto, che i Lacedemoni che si rifiutarono di partecipare alla spedizione erano Spartiati e, soprattutto, che i Parteni erano i loro figli. In pratica, secondo questa teoria, i Parteni erano stati tutti messi al mondo dagli Spartiati declassati al rango di Iloti. 

Ha probabilmente influito su questa supposizione un passo in cui Aristotele accenna ai Parteni come cittadini degradati, anche se i loro padri «erano equiparabili agli Spartiati», che però è più un’orgogliosa pretesa degli stessi Parteni che un riscontro della realtà. In aggiunta il testo di Antioco indica esplicitamente che i disertori erano Lacedemoni, e non Spartiati, e perciò generici componenti delle truppe spartane, mentre non precisa che i Parteni erano proprio i figli di coloro che s’erano rifiutati di partecipare alla spedizione, riportando solo che essi erano nati nel periodo di svolgimento della guerra messenica. D’altra parte, non si capirebbe in quale modo Antioco avrebbe potuto appurare le paternità dei nati di tutto quel ventennio.

Occorre poi ricordare che le defezioni tra le fila degli Spartiati — non a caso famosi per il valore e per lo sprezzo del pericolo sempre dimostrato — erano del tutto eccezionali, se non addirittura impossibili. Tanto per fare un esempio, alle Termopili solo uno (su trecento) si ritrasse dal combattimento per una grave forma di oftalmia, e in più dopo aver ottenuto il permesso da parte del suo comandante Leonida. Ora, fatte le debite proporzioni, a Messene, se la diserzione avesse interessato solo gli Spartiati, avrebbe comportato numeri molto piccoli, al massimo, a farla grossa, una ventina di unità. Per cui, con tutta la migliore volontà e pur facendosi ben più che in quattro, un così esiguo numero di Spartiati non sarebbe stato comunque in grado di generare i Parteni che Antioco dà al contrario per numerosi («polloi»).

I Parteni, secondo Eforo

 Diversa e meno problematica la versione data da Eforo, storico cumano del IV secolo a.C. Nel suo racconto i Lacedemoni, sempre impegnati nella guerra messenica, non potevano ritornare in patria perché s’erano vincolati con giuramento a farlo solo dopo aver sconfitto gli avversari. La loro assenza rischiava alla lunga gravi problemi di natalità e, per questo, passati dieci anni, le Spartane sollecitarono una soluzione. Questa fu trovata rimandando in patria i più giovani che, non avendo partecipato alle prime fasi della spedizione, non avevano dovuto pronunciare il giuramento e non ne erano pertanto vincolati. A loro fu ordinato di congiungersi con «tutte le vergini» in maniera indiscriminata pensando che così «avrebbero generato più figli». E così avvenne. Ai fanciulli nati da queste unioni fu dato il nome di Parteni perché figli di vergini o di donne non sposate.

Pertanto in questa versione non c’è adulterio, come invece intuibile in Antioco, ma comunque la presenza di unioni casuali che rendevano impossibile ai fanciulli di sapere chi era il loro padre e di esserne riconosciuti. Anche in questo caso, era l’essere nati al di fuori d’un legittimo matrimonio che comportò per i Parteni il vedersi negare gli stessi privilegi degli altri cittadini. In definitiva è desumibile qui la risposta al primo dei nostri quesiti: i Parteni erano degli “esclusi”, avendo subito un declassamento sociale, desumibile già dal nome stesso loro attribuito, che di fatto alludeva alla illegittimità della loro nascita. Non volendo sottostare, come afferma Antioco, «a tale stato di cose», i Parteni decisero di farsi ragione con la forza contando sul loro folto numero.  Per questo, iniziarono a cospirare. 

(1 – continua)

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Quando dalle nostre parti arrivarono gli Elleni: chi erano i "figli delle vergini"

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