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A cura di Blog Collettivo

Ospitiamo in questo Blog opinioni di alcuni cittadini Brindisini

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Amore dietro le sbarre, il diritto costituzionale all'intimità affettiva

L’attuale condizione delle carceri fa sì che i nostri istituti somiglino più a discariche per lo smaltimento dei rifiuti sociali che non ad istituzioni orientate alle esigenze della rieducazione. Un po’ come nell’inferno dantesco, chiunque oltrepassi quel portone, sa bene che deve abbandonare ogni speranza , le sue abitudini, la sua privacy. La privacy in carcere, fa sorridere no? : in fondo, entrando in prigione il detenuto deve accettare le regole dell’amministrazione penitenziaria, come pure i riti della subcultura carceraria e quel codice non scritto di regole fra detenuti. Dietro le sbarre, l’inaccettabile diventa quotidianità: convivere anche nella propria intimità, con persone di cui sempre si sospetta.

L’attuale condizione delle carceri fa sì che i nostri istituti somiglino più a discariche per lo smaltimento dei rifiuti sociali che non ad istituzioni orientate alle esigenze della rieducazione. Un po’ come nell’inferno dantesco, chiunque oltrepassi quel portone, sa bene che deve abbandonare ogni speranza , le sue abitudini, la  sua privacy. La privacy in carcere,  fa sorridere no? : in fondo, entrando in prigione il detenuto deve accettare le regole  dell’amministrazione penitenziaria, come pure  i riti della subcultura carceraria e quel codice non scritto di regole  fra detenuti.   Dietro le sbarre, l’inaccettabile diventa quotidianità: convivere anche nella propria intimità, con persone di cui sempre si sospetta.

Dalla notte dei tempi, la pena deve assolvere alla funzione retributiva, nella privazione delle più piccole libertà, nella separazione dalla propria vita e dalle proprie abitudini, dalla casa, dagli affetti. Ciò che si è voluto far sperimentare all’individuo in carcere è lo stato di mal-essere che avrebbe dovuto servire,  da deterrente: un feticcio che dovrebbe spaventare chi è fuori dal carcere e chi ha l’occasione di entrarvi  schivando il rischio di  recidive (ma per molti non c’è un  domani, fuori dal carcere, né recidive).

Convivere in otto, in tre metri quadrati, orinare davanti ai compagni di cella, assuefarsi ad un’insolita promiscuità, allontanarsi dai propri affetti, determinano profondi cambiamenti nella persona, nell’identità, quasi sempre negativi. E così per le  abitudini sessuali, che non derivano certo da una libera scelta. Nelle carceri penali il 70-80% dei reclusi pratica rapporti omosessuali, ricercati o imposti,  con altri detenuti, altamente improbabile una scelta di continenza, così che le due opzioni –  masturbazione ed omosessualità -,  sono le uniche disponibili. Una dinamica contraria,  ad un percorso di riabilitazione, a quell’art. 1, comma 1. Ord. Penit.: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”.

Come tutte le cose negate, in carcere la sessualità diventa un’ossessione, ci si lascia tentare dalle occasioni, dal bisogno di denaro per la droga o per altri oggetti negati.  Il legislatore dimentica e noi con lui, che chi entra in carcere, fino a quel momento ha avuto una vita familiare e sessuale normale, ha potuto scegliere il proprio  partner in libertà. Se eterosessuale non ha mai pensato ad un partner dello stesso sesso, pratica verso la quale potrebbe aver provato ripugnanza. Ma dopo il  primo periodo,   diventa opprimente il bisogno di allentare le tensioni .

In questo, la popolazione carceraria femminile è diversa: la tensione sessuale è orientata verso manifestazioni di affetto e sebbene vi siano rapporti lesbici, essi sono meno  violenti tesi a formare relazioni pseudofamiliari, che non a creare disordine.

Per gli uomini, il sollievo viene dall’autoerotismo, stimolato dalla fame di materiale pornografico, assai diffuso, ma insufficiente:  si desidera toccare, lasciarsi accarezzare, sentire, sentire, sentire perché la sessualità, in fondo è un modo di comunicare, di farsi ascoltare e così, il gesto di ogni giorno si trasforma in vere e proprie relazioni intessute  di  tradimenti e di  gelosie. Ovvia conseguenza dell’isolamento dalle proprie relazioni affettive, il cambiamento  nell’identità di genere che provoca dissociazioni a livello psichico,  incrinando precedenti fragilità,  sino a perdere la stima di sé.

Qualcuno dirà: ma dai, ci sono le visite! Si le visite, il colloquio:  il bacio di Salvatore, Aldo, Francesca ,  Barbara, è fugace, le mani tendono verso la compagna/o di una vita, impietoso l’occhio delle telecamere, invadente lo sguardo degli agenti e quel gesto di tenerezza è frettoloso, accennato,  come le confidenze sulla vita fuori dal carcere, sul mutuo, sulle malattie, sui figli ormai adulti. Una carezza più intima al detenuto è preclusa: è una questione di articolo 18, quello dell’ordinamento penitenziario però, che impone il controllo a vista dei detenuti, quando sono in compagnia di parenti ed amici.

E’ una scelta di chiara matrice negazionista, retributiva quella  del nostro sistema desumibile dal comma 2 dell’art.1 8  L. 26/7/1975, n.354, che esige “il controllo a vista ………del personale di custodia” sui colloqui, il massimo accettabile sufficiente però a  rendere precari e difficili i rapporti familiari, disutili per “mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti o degli internati con le famiglie”. E’ un’inibizione indiretta, sufficiente ed efficace.

Nell’istituto della “visita” (con consumazione del pasto allo stesso tavolo fra i familiari), previsto dall’art. 61, comma 2, lettera b), Reg. esecuzione Ordinamento Penitenziario, che sempre richiama,  l’art. 18, comma 2, della legge, è  confermata tale visione:  i gesti affettuosi appena consentiti , possono creare tensioni fra detenuti e familiari da un lato, e personale di sorveglianza dall’altro, chiamato a valutazioni  discrezionali nel controllo, secondo la mentalità di chi è chiamato a gestirle. Forse però per Salvatore, Aldo, Francesca, Barbara, si riaccende la speranza di stringere  liberamente il compagno/a , di sentire le sensazioni di una vita fa.

Alla domanda:  è possibile sostenere, nel quadro costituzionale, la riduzione dei rapporti fra detenuto e familiari ai soli colloqui, quando si sacrifica, così facendo, la ricchezza del tema familiare e il detenuto è costretto, a rapporti inevitabilmente degradanti? una magistrata (non sarà un caso che sia donna), di sorveglianza ha dato risposta, sollevando d’ufficio  (23.04.2012) eccezione di incostituzionalità dell’art. 18, comma 2, della L. 26/7/1975, n. 354, con l’adesione della Procura, di una disciplina che «impedisce al detenuto l’intimità dei rapporti affettivi con il coniuge o il convivente, imponendo l’astinenza sessuale, favorendo il ricorso a pratiche masturbatorie o omosessuali, violando i diritti garantiti dagli articoli 2,3,27, 29, 31,32 della Costituzione», lesiva del principio di uguaglianza, contraria all’umanità della pena, al diritto alla famiglia, alla salute, ostacolo al mantenimento di relazioni affettive, all’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo nel «diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali » e nel comportamento sessuale che è un aspetto intimo della vita privata » , all’art. 12, nel diritto di creare una famiglia.

Eppure il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita (Raccomandazione R(98)7, regola n. 68), di mettere a disposizione dei luoghi per coltivare i propri affetti [Raccomandazione 1340(1997 relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e socialil], accessibili per tutti i tipi di visite,  senza discriminazione. Ma si sa, l’Italia fa parte dell’Europa quando le pare; eppure, il diritto alla affettività (in carcere) è riconosciuto nella Spagna cattolica, in Germania dove sono predisposti appartamenti in cui i condannati a lunghe pene possono incontrare i propri cari, in Olanda, Norvegia e Danimarca dove ono previste camere matrimoniali con servizi e cucina.

In Italia l’unico contatto tra detenuti e parenti è il colloquio, che si svolge in ambienti affollati da una umanità travolta in pochi minuti dal dolore e dalla gioia, dall’ansia di raccontarsi lo scorrere di una vita, a volte nella vergogna di incrociare lo sguardo di quel figlio che fatica a chiamarti “papà”. Sicché per un verso, la citazione costituzionale rivendica il rispetto di un diritto naturale, sul tema della promozione dell’uomo ( art. 2 e art. 3, commi 1 e 2), e per l’altro, tale posizione è rafforzata dal primato della funzione inclusiva della pena, riaffermata  nell’Ordinamento Penitenziario e nella Costituzione. Non è una mera questione di rapporti sessuali:  è prendere atto che non è possibile costituzionalmente inibire il diritto al rapporto con il partner in una relazione di coniugio o di convivenza stabile e che la forma con cui deve essere ammessa la fruizione di tale diritto è quella della affettività, che può elidere quelle conseguenze inumane e degradanti, e non del mero riconoscimento dell’ammissione a rapporti sessuali fra le parti.

Se il carcere dev’essere luogo di rieducazione, gli atteggiamenti negazionisti e sessuofobici  del legislatore -  fuori dalle sbarre - non sembrano utili al re-inserimento sociale. E’ l’affettività che reclama la sua parte: è dando spazio ad una  normalità possibile, senza il controllo visivo del personale sull’intimità di quell’affanno, di quella vergogna, di quelle carezze,  che hanno tanti nomi, che si realizza il mantenimento, il miglioramento delle relazioni dei detenuti con le famiglie. Se ogni tanto il legislatore volesse guardare più in là dei suoi pregiudizi e  non solo per i detenuti e per il loro diritto a continuare a vivere scontata la pena, ma per il  futuro dei nostri figli, noi ed i nostri figli gliene saremmo grati.

*Avvocato

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