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A cura di Blog Collettivo

Ospitiamo in questo Blog opinioni di alcuni cittadini Brindisini

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In fondo, ci stiamo facendo togliere tutto

Esiste una Bombay nascosta. Luminosa e sfuggente, vive sotto le mie unghie. Mi è rimasta addosso, tutti questi anni, come un melanconico ripensamento. Vive questa Bombay, sotto le mezzelune, fra le mie dita, le mani e i ponti immaginari

Esiste una Bombay nascosta. Luminosa e sfuggente, vive sotto le mie unghie. Mi è rimasta addosso, tutti questi anni, come un melanconico ripensamento. Vive questa Bombay, sotto le mezzelune, fra le mie dita, le mani e i ponti immaginari. Freme e scalpita, quasi ruggisce: incarna lo scenario più svariato di una parola semplice, eppure difficile – l’umanità. È una melodia di carne e treni, tavolini di plastica, cieli incupiti. Il broncio dell’azzurro in attesa del monsone.

Una città irrinunciabile, anarchica e cannibale, che tante volte mi ha accolto, sfinendomi, in abbracci troppo stretti o troppo intensi, ma mai troppo lunghi. Una città che ho amato tanto – e ancora amo, nonostante la bruttezza dei giorni, l’assalto del cemento che la strozza. Stato, mafia e religione l’hanno cementificata in un patto demoniaco. Stato, mafia e religione: le tre facce dello stesso potere, ovunque, quello che snatura. Perché Bombay ha un’anima selvatica, che non può essere costretta o addomesticata.

Eppure, nonostante gli scempi, questa mia città respira. Respira sotto le mie unghie, laccate e sporche, insieme. A volte, penso che la bellezza di Bombay sia quasi pornografica. Questa città che puntualmente ritrovo, come una corrente elettromagnetica lungo i binari del cuore, le foreste occulte, gli animali fantastici. Non crolla, Bombay, sotto le bombe degli anni, il peso dell’abitudine.

E l’ho ritrovata, accennata ma presente, in un libro molto amato, riletto a distanza di solitudini e metamorfosi: Notturno indiano di Antonio Tabucchi, che è una ricerca nella ricerca, ogni volta si strotola la strada delle possibili interpretazioni.

Ma in fondo, chi siamo e da dove veniamo? Dove andiamo, dove andremo tutti? Forse Tabucchi ha ragione quando scrive che i corpi sono semplicemente le nostre valigie, e dentro queste valigie così ottuse e ingombranti ci viaggiamo dentro. I nuovi pellegrinaggi verso le osannate terre d’Occidente, i traffici sempre più scellerati e disumani su un mare che più nostro non è, tanto ne abbiamo abusato, affogandolo nella nostra spazzatura, ignoranza, odiosa miopia.

I barconi – quei barconi gonfi di speranza e luce rosata – un tempo erano i nostri lenti, dolenti espressi notturni che attraversavano l’Italia, spaccando la notte e l’alba. Quei viaggi devastanti che ci sradicavano e poi ci impiantavano in uteri urbani di città a nord, anonime nella loro efficienza: città che in fondo non ci volevano, e ci respingevano. Ci rigettavano, come organi vitali malriposti. Ecco cos’era la nostra migrazione, dietro una patina di lavoro-successo-casa-soldi. Le suture frettolose a quell’Italia in movimento ci hanno solo indebolito, e ora vomitiamo tutto ciò che è estraneo al nostro sistema immunitario così prevedibile e omologato. Ora siamo noi i respingenti, null’altro.

L’altro giorno, per caso, come sempre succede ho letto un articolo su un vecchio numero dell’Unità, una sorta di elogio funebre all’Espresso del Sole (Palermo-Torino), mitico treno che ci allacciava da sud e nord, e viceversa. Ora soppresso, e questa soppressione ha scatenato un piccolo terremoto nei nostri emisferi emotivi, appena percettibile, e già dimenticato.

Poi il mio sguardo affamato di notizie si è posato su una foto: un gruppo di fieri afghani, anziani e sfolgoranti. Tutti con l’indice amputato dai talebani. Ma i talebani esistono sul serio, o sono anche loro un prodotto di scarto degli americani, un fumetto grottesco disegnato da una mente beffarda? Ma torniamo alla foto, e agli afghani che sfoggiano mesti il dito mozzato: su quel dito c’era una sbavatura d’inchiostro violetto, prova inconfutabile che avevano votato, perciò sono stati puniti.

Ero a Bombay, quando ci sono state le ultime elezioni politiche in India, fra aprile e maggio 2014. Ho visto praticamente ovunque quell’indice intriso di inchiostro. Purtroppo, la dignità civica non ha premiato un buon candidato, e ora il primo ministro è un piccolo fascista capriccioso, il signor Narendra Modi che ha spodestato l’elefantiaca dinastia dei Nehru-Gandhi. Ma non mi addentro in questioni che fanno torcere le viscere, d’altronde sono italiana, e poco posso permettermi di dire.

Perché in Italia non ribaltiamo i dinosauri che ci governano, né subiamo amputazioni per avere votato con fierezza ed orgoglio. Quel sano orgoglio – quello vitale, che anima la democrazia più sincera – che tanto manca alla nostra Italia sbilenca, e la mia – ahimé – non è una metafora calcistica. In fondo, ci stiamo facendo togliere tutto, ci togliamo tutto da soli, poi ci lamentiamo. Ma toglieteci tutto, non l’aperitivo e le tette finte, comprate in qualche clinica dell’assurdo. Toglieteci tutto, e lasciateci le nostre miserie. (Fuori si prepara un temporale, le colline ondulate gemono, e la Bombay che vive sotto le mie unghie si assopisce).   

Ps. Il titolo di questo post è preso in prestito da una mia autorevole collega traduttrice, Adriana Motti, quando i traduttori si curavano dei propri autori nel vero senso della parola.     

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