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A cura di Blog Collettivo

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La violenza sulle donne, l'altra faccia dell'India rampante

MUMBAY – Non voglio trasmettervi informazioni, dati, numeri, asciutti resoconti cronachistici e chirurgici – non sono una giornalista, seppure il mio mestiere sia scrivere – e non ho la capacità di narrare la realtà da una prospettiva razionale e oggettiva, però voglio raccontarvi un sentimento. E qui a Mumbai, come in tanti altri luoghi dell’India, il sentimento prevalente è l’indignazione, o il disgusto, che assume una forma rabbiosa, apocalittica, energetica.

MUMBAY – Non voglio trasmettervi informazioni, dati, numeri, asciutti resoconti cronachistici e chirurgici – non sono una giornalista, seppure il mio mestiere sia scrivere – e non ho la capacità di narrare la realtà da una prospettiva razionale e oggettiva, però voglio raccontarvi un sentimento. E qui a Mumbai, come in tanti altri luoghi dell’India, il sentimento prevalente è l’indignazione, o il disgusto, che assume una forma rabbiosa, apocalittica, energetica.

Non è la prima volta che in India si compie uno stupro disumano e agghiacciante, come quello di Nirbhaya: purtroppo gli stupri e le violenze contro le donne sono pratica diffusa, e non soltanto nell’India rurale che si tende a dimenticare, a occultare dietro l’immagine della tanto declamata India Shining, questa potenza rampante e modernizzata; ma anche nelle megalopoli scintillanti e promettenti.

Lo stupro è un fenomeno radicato nella storia e nella cultura di questo paese contraddittorio e strambo, a volte incomprensibile. Eppure, in questo stesso fango spuntano fiori di loto di straordinaria bellezza, e non bisogna dimenticarlo. Nel 2001-2003 ho trascorso due anni in India grazie a una borsa di ricerca mae-iccr; ho vissuto a Mumbai, dove mi sono occupata di un progetto intitolato The Danger of Gender, incentrato sul rapporto fra scrittura femminile, genere e casta in India.

In quel periodo intenso, passato presso la University di Mumbai, ho raccolto molti articoli di giornale – che conservo ancora nel mio baule indiano – in cui si parlava quotidianamente di “dowry deaths” (uxoricidi compiuti in nome della “dote”, mai sufficiente ad appagare le voglie e le richieste della famiglia del marito); “female foeticide” (feticidio preselettivo nei confronti delle femmine; in alcuni stati indiani le proporzioni numeriche fra bambini e bambine hanno assunto cifre impressionanti); e persino sporadici casi di “sati” (la pratica ritualista indù di immolarsi sulla pira del coniuge defunto, perché una buona moglie devota non può morire dopo il suo consorte, ma dovrebbe morire prima), oltre che a una quantità esagerata di stupri.

Spesso, l’età delle vittime di queste violenze è inferiore ai diciotto anni, e molto spesso riguardava bambine di otto, cinque, tre anni. Dopo più di dieci anni, la situazione è immutata: leggo sempre gli stessi raccapriccianti fatti di cronaca sui tanti quotidiani indiani di lingua inglese.

Le violenze contro le donne sono immutate, e forse si sono addirittura ingigantite. Il terrificante stupro di Delhi, di cui si è parlato ampiamente e a lungo anche in Italia, è stato lo spartiacque atroce fra il silenzio (che mi ricorda molto la nostra omertà meridionale) e la denuncia: per ovvi motivi sociali, in India, soprattutto nelle zone rurali, molto spesso gli stupri non vengono denunciati.

Le donne indiane temono la stigmatizzazione sociale, e hanno il terrore di perdere qualsiasi dignità denunciando le violenze subite: non è raro che una donna stuprata sia poi violentata dagli stessi poliziotti ai quali si è rivolta in cerca di aiuto (anche articoli di questo genere, ahimè, abbondano), o che venga poi molestata dagli altri abitanti del villaggio.  Per non parlare del degradante test delle “due dita”, praticato dai dottori su richiesta della legge, per verificare che lo stupro sia avvenuto.

Ora che lo stupro della povera Nirbhaya, la studentessa di ventitre anni brutalmente picchiata, torturata, seviziata, massacrata, stuprata su un autobus in corsa nel centro di Delhi, da sei – badate bene, ben sei uomini indiani per poi essere gettata in strada come un sacco della spazzatura – è saltato alla ribalta mondiale, si parla di misure concrete per prevenire e punire lo stupro.

Si parla di “women cells”, spazi esclusivamente al femminile in cui le donne possono denunciare con tranquillità (e ve la immaginate come deve essere tranquilla una donna che è stata stuprata?) le violenze subite; e si prevede di installare in ogni centrale di polizia un gruppo di cinque poliziotte in modo da potersi occupare di “gender-related violence”, violenza di genere; oltre all’istituzione di “telefoni rosa” per denunciare le violenze, e ad incrementare le misure di sicurezza sui mezzi di trasporto pubblici.

Questi provvedimenti appaiono quasi fantascientifici, e poco convincenti, in una società tuttora patriarcale e maschilista come quella indiana, che finisce per colpevolizzare le vittime stesse degli stupri, adducendo motivazioni inconsistenti come “era vestita all’occidentale”, “era in giro di sera con un amico, e non era sposata”, “se era una donna per bene, se ne stava a casa” (alcune frasi simili sono state usate da uno degli avvocati che difenderà i sei stupratori, Manohar Lal Sharma, che ha avuto l’arroganza di dire, “Le donne rispettabili non vengono stuprate, non è mai successo: nemmeno un boss della mafia si azzarderebbe a toccare una donna che ispira rispetto.”)

E i politici? I politici indiani naturalmente hanno approfittato di questo episodio per assicurarsi i voti delle prossime elezioni: Nirbhaya è stata usata come uno strumento per procacciarsi i voti (e questa ragazza è stata uccisa più volte dalla classe politica e dai santoni che ne hanno blaterate di tutti i colori, ma di questo vi racconterò un’altra volta, per ora accontentatevi delle idiozie degli avvocati) e la sedia in Parlamento.

Sonia Gandhi si è limitata a fare una visita di cortesia alla vittima, quando giaceva in fin di vita in ospedale a Delhi, prima di essere trasferita invano a Singapore (e anche questa è stata una decisione politica di comodo, quando ormai la sorte della ragazze era spacciata) dove è spirata fra atroci sofferenze. I suoi colleghi indiani più estremisti e fascisti hanno invocato la pena di morte, mentre il Congress – il partito di Sonia Gandhi – si è dichiarato contrario sia alla pena di morte sia alla castrazione chimica degli stupratori.

E la gente comune? La gente è scesa in piazza, ha protestato contro un sistema che non garantisce sicurezza alle proprie donne, ha ferocemente manifestato contro la violenza come pratica sistematica e approvata dalla società – perché in fondo di questo si parla, e bisogna prenderne atto, prima ancora di pensare a soluzioni fattibili. Il tam-tam dei social forum e le manifestazioni si sono diffuse come una marea irrefrenabile in tutta l’India, in lungo e largo. La gente comune ha assaltato le sedi del potere, incurante delle conseguenze.

A Delhi sono aumentate le richieste di porto d’armi da parte di donne preoccupate, o di genitori allarmati per la sicurezza delle proprie figlie. L’altro giorno, mentre andavo in centro a South Bombay, percorrendo Marine Drive (che sempre mi lascia senza fiato), ho visto uno striscione enorme su cui campeggiava questa scritta: “Rape is a disease, hanging is the only cure”, “Lo stupro è una malattia, l’impiccagione è l’unica cura”, uno slogan che si sta diffondendo come un virus. L’opinione pubblica indiana è indubbiamente a favore della pena di morte per i sei barbari stupratori.

E le donne? Le donne sono scese in piazza, in strada, hanno manifestato a gran voce, hanno sfidato qualsiasi resistenza da parte della legge. Hanno urlato il loro orrore, invocando il nome di Nirbhaya. Di sicuro è stato un primo passo importante, che spezza una lunga tradizione di paura e silenzio. Eppure, la strada è ardua e insidiosa. Lo stupro non è una malattia: è la società malata e repressa a generare fenomeni come lo stupro. Come accade spesso in India, è la repressione sessuale a scatenare atti disumani; una repressione incitata dalla religione e da un sistema sociale ormai troppo vecchio e pieno di falle per stare al passo coi tempi. Una repressione sessuale che è quasi una sensazione fisica, opprimente.

Chi conosce bene l’India, capisce cosa intendo. La mercificazione della donna in India avviene nella quotidianità, nella famiglia, a scuola, nelle fabbriche, per la strada. Non è un fenomeno prettamente televisivo o mediatico, è un fatto concreto. D’altronde la società indiana è fondata su un testo del 1500 a.C. conosciuto come Manusmriti La legge di Manu: un legislatore misogino e maschilista che decretò il ruolo subordinato e remissivo della donna indiana, con la sua famosa frase: “A woman is never fit for independence”; la donna non è fatta per l’indipendenza, ed è sempre subordinata a una figura maschile che la definisce e la delimita: il padre, il marito e infine il figlio.

Anche questa è l’India, paese affascinante eppure feroce, dove una giovane donna può morire al crepuscolo in una megalopoli affollata, salendo su un autobus e pagando persino il biglietto.

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Clara Nubile è nata a Brindisi nel marzo 1974, durante un temporale. Traduttrice editoriale (fra le sue tante traduzioni, Vita di Pi, sugli schermi cinematografici in questo periodo) e scrittrice (Tu come tutto quello che tocchi, il suo ultimo romanzo edito da Bompiani, è una sorta di fotoromanzo della Scu) ha vissuto a lungo in India, dove spesso torna.

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