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Laureati: non fuga, ma spreco

(Comincia con questo intervento un'altra prestigiosa collaborazione con BrindisiReport.it, quella di Luca Bianchi, vicedirettore Svimez - Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno). I dati presentati nell’ultimo Rapporto della Banca d’Italia della Puglia offrono un ulteriore tassello al quadro drammatico della condizione giovanile nelle regioni del Mezzogiorno. Una condizione di diffusa disoccupazione, sottoccupazione e desiderio di fuga verso aree più favorevoli per la propria realizzazione professionale.

(Comincia con questo intervento un'altra prestigiosa collaborazione con BrindisiReport.it, quella di Luca Bianchi, vicedirettore Svimez - Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno).

I dati presentati nell’ultimo Rapporto della Banca d’Italia della Puglia offrono un ulteriore tassello al quadro drammatico della condizione giovanile nelle regioni del Mezzogiorno. Una condizione di diffusa disoccupazione, sottoccupazione e desiderio di fuga verso aree più favorevoli per la propria realizzazione professionale.

Lo specchio di una società contro i giovani, relegati alla condizione di “figlio”, mantenuti, quando si ha questa fortuna, dalla famiglia di origine, alla ricerca di un lavoretto per pagarsi almeno la pizza il sabato sera. Un quadro ancor più devastante se riguarda, come dimostrano questi dati, anche la parte più forte della offerta di lavoro giovanile, quella di coloro che hanno avuto la possibilità di studiare conseguendo una laurea.  Nel 2010 è cresciuto fortemente in tutto il Mezzogiorno il fenomeno dei cosiddetti NEET (cioè dei giovani che non studiano e non lavorano). Secondo la Banca d’Italia, “nel 2010 il 33,2 per cento dei giovani pugliesi tra 15 e 34 anni non aveva un’occupazione, né stava svolgendo un’attività di studio o formazione, con un aumento di 17.000 unità rispetto al 2008 (+5,2%)”.

Il fatto nuovo è che tale condizione riguarda in misura rilevante anche i giovani laureati: il 27,8% dei laureati tra i 15 e i 34 anni in Puglia è fuori dal sistema formativo e dal mercato del lavoro. Ci eravamo ormai tristemente abituati in questi anni a parlare a parlare di fuga di cervelli, quella che gli studiosi chiamano “brain drain”, cioè il drenaggio di capitale umano dalle aree deboli verso le aree a maggiore sviluppo. Una categoria che riguarda soprattutto i Paesi in via di sviluppo (pensiamo all’India negli scorsi decenni)  ma non dovrebbe riguardare Paesi sviluppati come l’Italia.

Non perché non esita in queste aree una forte mobilità, soprattutto della forza lavoro qualificata come avviene ad esempio negli Stati Uniti. Ma in questi Paesi si parla di “brain exchange” cioè di scambio di cervelli; ci si muove verso le aree che nelle singole specializzazioni offrono più opportunità. Ne derivano flussi multidirezionali e non monodirezionali, solo verso il Nord, come avviene da tempo nel nostro Sud e più recentemente anche dal Nord, oltre che dal Sud, dell’Italia verso l’estero.

Adesso scopriamo una nuova categoria quello del “brain waste” dello “spreco di cervelli”, una sottoutilizzazione di dimensioni abnormi del capitale umano formato che non ha neppure più la valvola di sfogo delle migrazioni. Una massa consistente di giovani che presentano il paradosso di essere la parte più avanzata della società meridionale (quella che ha accumulato grazie al processo di istruzione più strumenti per partecipare alla competizione globale) ma al tempo stesso la più penalizzata da un sistema chiuso, ad ascensore sociale bloccata, costretta a dipendere dai trasferimenti di risorse delle generazioni più anziane. Con il rischio che in questi anni di non studio e non lavoro dimentichi anche le competenze accumulate o che esse diventino obsolete in una società che muta rapidamente.

Siamo all’altro paradosso della società italiana, e meridionale in particolare, quello dell’overeducation (cioè dell’eccesso di educazione) in un Paese che presenta livelli di scolarizzazione universitaria molto al di sotto della media europea e in forte riduzione negli ultimi anni. I laureati sono troppi se vediamo l’economia italiana in termini statici cioè sulla base della domanda proveniente dal sistema economico esistente, e sono pochi  se vogliamo attivare processi di sviluppo che poggiano sulle potenzialità della conoscenza.

Occorre cambiare questo modo di pensare. Un recente studio della Banca d’Italia mostra che un aumento del 10 per cento della quota dei lavoratori laureati porterebbe a un aumento della produttività totale dei fattori di quasi un punto percentuale. Un’enormità, nello stagno della nostra economia. Una misura in grado di rilanciare economia e società italiane: esattamente ciò che manca alla manovra presentata in questi giorni. Coi giovani, è in gioco il modello di sviluppo e la crescita del Paese. Molti Paesi europei lo hanno capito.

Quasi tutti i Paesi hanno presentato proprio nelle fasi di crisi politiche pubbliche a favore della formazione e dell’occupazione giovanile, soprattutto con riferimento alla costruzione di skill per i settori più innovativi (green economy, ICT, servizi avanzati alle imprese e alle persone). Si veda a proposito un recente studio dell’Ocse sulle azioni dei Paesi per combattere gli effetti della crisi sulle nuove generazioni redatto del direttore delle politiche per l’occupazione Stefano Scarpetta. Troverete citati quasi tutti i Paesi sviluppati (dalla Cina agli Stati Uniti, alla Francia, alla Germania). Manca il capitolo dell’Italia. Non c’era niente da scriverci. Nessuna iniziativa è stata avviata dal governo nazionale per favorire l’ingresso sul mercato del lavoro delle nuove generazioni. Su questo occorrerebbe riflettere.

*Vicedirettore Svimez

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