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A cura di Blog Collettivo

Brindisi dribblata dalle innovazioni: via il freno a mano

Nessuna spinta efficace da parte della politica e dell’amministrazione locale a stare in un sistema di ampio respiro con grandi imprese, altri enti, università. E la vastità della perimetrazione del Sin continua a essere una palla al piede per le imprese che vogliono investire

A dispetto delle varie, depistanti cortine fumogene che vengono elevate attorno alle reali emergenze del nostro Paese, dovrebbe essere ormai chiaro a molti che le sfide che incombono da qualche anno sono rappresentate dalla transizione ecologica e dall’innovazione tecnologica, soprattutto da quella digitale. Qui, su questo terreno, vanno sostenute le imprese, vanno formate le risorse umane, vanno orientate e supportate la scuola e la ricerca. La descrizione infedele dei fenomeni migratori, la presunta necessità dell’Italia di varare l’autonomia differenziata delle Regioni e la riforma presidenzialista della nostra forma di governo, portano fuori strada rispetto ai reali bisogni dei cittadini: efficienza della sanità di base, salari, occupazione, parità, superamento delle disuguaglianze.

L’Italia e il Pnrr

Se si guarda con questa ottica realistica agli accadimenti di queste settimane e di questi giorni, si comprende meglio cosa chiede l’Europa ai paesi membri, e che le risorse del Pnrr devono essere utilizzate per stare e competere nel sistema futuro cui mira l’Eu. “Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) – spiega il Ministero dello Sviluppo economico - prevede un pacchetto di investimenti e riforme articolato in sei missioni. Il Piano promuove un’ambiziosa agenda di riforme, e in particolare, le quattro principali riguardano: pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione, competitività. Il Piano – si legge sul portale del Mise - è in piena coerenza con i sei pilastri del Next Generation Eu riguardo alle quote d’investimento previste per i progetti green (37%) e digitali (20%)”.
Le risorse stanziate dall’Unione europea per il Pnrr italiano “sono pari a 191,5 miliardi di euro, ripartite in sei missioni: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura - 40,32 miliardi. Rivoluzione verde e transizione ecologica - 59,47 miliardi. Infrastrutture per una mobilità sostenibile - 25,40 miliardi. Istruzione e ricerca - 30,88 miliardi. Inclusione e coesione - 19,81 miliardi. Salute - 15,63 miliardi. Per finanziare ulteriori interventi il Governo italiano ha approvato un Fondo complementare con risorse pari a 30,6 miliardi di euro. Complessivamente gli investimenti previsti dal Pnrr e dal Fondo complementare sono pari a 222,1 miliardi di euro”.

Ora, dalla stampa si apprende che alcuni ministeri dell’attuale governo stanno chiedendo alla Commissione europea la modifica di alcuni obiettivi del Pnrr, ritenendoli non raggiungibili (hanno tempo fino al 20 gennaio, ha stabilito il ministro per il Pnrr, Raffaele Fitto), come quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, affidato da Giorgia Meloni a Matteo Salvini, che propone di cassare il progetto di nove stazioni di rifornimento per i treni a idrogeno, spostando 300 milioni sulla riparazione delle reti idriche. Chissà quante di queste modifiche saranno accolte, e quante invece respinte (c’è anche in ballo il rinvio del potenziamento della rete degli asili nido). 

Nel contempo, al 53mo World Economic Forum di Davos in Svizzera, dove grandi imprese e governi confrontano annualmente dal 1971 idee strategiche sulle principali sfide globali economiche, geopolitiche e sociali, il governo italiano ha inviato il solo ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, e ha disertato (episodio riferito da Repubblica), una cena con l’amministratore delegato di Intel, colosso del digitale che ha già deciso di investire 17 miliardi in Germania, ma non ha trovato interlocutori per discutere di un investimento di 5 miliardi nel nostro Paese.

Le innovazioni e il ritardo di Brindisi

Il passaggio dal clima di fiducia nella competenza dell’amministrazione Draghi, alla concitazione e alle incertezze di quella attuale, è palese. Era necessario farvi preliminarmente cenno per giungere alla situazione della città e del territorio di Brindisi. L’altro giorno il sindaco di Bari, Antonio Decaro, dati alla mano ha calcolato che tra qualche anno il capoluogo di regione raggiungerà i 5mila addetti nel settore dell’innovazione digitale. L’attenzione, gli investimenti e gli insediamenti di grandi player del settore dell’Itc infatti continua a premiare quella città, grazie allo stimolo della disponibilità di infrastrutture, attenzione, incentivazione economica e promozione da parte della pubblica amministrazione e della Regione, e non certo da ultimo dell’Università. Attenzione che si sta anche spostando su Lecce.

Un polo dell’innovazione digitale vuol dire, solo per fare un esempio, anche occupazione per ampie fasce di giovani, stimolo all’alta formazione, stare al passo con le tappe verso il futuro tracciate dall’Unione europea. Se spostiamo un immaginario telescopio da Bari su Brindisi, sappiamo tutti cosa apparirà: avevamo un centro votato a quella missione, la Cittadella della Ricerca (foto in basso), ora però in pieno abbandono da anni salvo poche e importanti eccezioni - di cui parleremo in altra occasione – che operano grazie a proprie risorse a capacità. 

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Nessuna spinta efficace da parte della politica e dell’amministrazione locale a stare in un sistema di ampio respiro con grandi imprese, altri enti, università. Non perché manchino gli incontri, i memorandum di understanding, e qualche progetto: evidentemente non sono quelli che cambiano gli assetti di una situazione assai complessa. Se poi si giunge a dire che Brindisi deve tornare ad avere un’Autorità portuale autonoma, è legittimo nutrire forti dubbi sulle capacità di stare in un sistema adeguato alle sfide dell’innovazione digitale, e conseguentemente della transizione ecologica. 

Il Sin, l’industria e il porto

Il deputato locale, Mauro D’Attis di Forza Italia, ha recentemente e giustamente posto all’attenzione di tutti lo stato dell’arte del processo di revisione dei Siti inquinati di interesse nazionale, Brindisi e quelli pugliesi inclusi. La vastità della perimetrazione del Sin di Brindisi ha rappresentato e rappresenta, da lungo tempo, una palla al piede per gli investimenti a la vita delle imprese e delle attività portuali. Va da Cerano sino a gran parte dei bacini portuali seguendo il tracciato dell’asse attrezzato Enel, e a tutta la zona industriale ed oltre, imponendo costose e complesse operazioni di caratterizzazione e bonifica, indicate dalla apposita conferenza nazionale permanente dei servizi. Operazioni non solo in capo a chi ha effettivamente inquinato falda e terreni, ma anche a chi vuole apportare modifiche agli insediamenti, e a chi vuole insediarsi, tanto da rendere poco attrattivi gli stessi terreni già liberati da questi vincoli.

Su questo obiettivo della nuova perimetrazione del Sin, liberando banchine e terreni industriali, l’attenzione della politica deve essere massima. Brindisi deve sviluppare le condizioni per attrarre investimenti e deve liberare la strada alle nuove infrastrutture portuali e di servizio al traffico marittimo e alle aziende. Le grandi imprese, dal canto loro, devono mantenere gli impegni assunti per la riconversione ecologica. Bari ha più merci su rotabili ed è ai primi posti del traffico crocieristico italiano perché ha più accosti per le grandi navi mentre a Brindisi il porto è diventato un territorio di veti e scontri di competenze. Chi deve investire valuta in primo luogo non solo la presenza di convenienze e infrastrutture, ma anche il clima politico e amministrativo di una città e di una provincia. Tutto ciò evidentemente e al momento viene riscontrato altrove, e non nella città terminale della via Appia.

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