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Redazione

Giorno della memoria: il passato non si può cambiare, il presente sì

Il 27 gennaio 1945, qualche mese prima della fine della II guerra mondiale, le truppe sovietiche aprirono i cancelli del campo di stermino di Auschwitz

Il 27 gennaio 1945, qualche mese prima della fine della II guerra mondiale, le truppe sovietiche aprirono i cancelli del campo di stermino di Auschwitz. Una guerra spaventosa che provocò la morte di circa cinquanta milioni di persone in tutto il mondo. Ad essere umiliati e soppressi ad Auschwitz, ma anche negli altri campi di sterminio, non furono solo gli ebrei, i rom, i dissidenti politici, gli omosessuali, i testimoni di Geova, i malati psichici e tutte quelle categorie, che secondo l’ideologia sociale nazista non avevano diritto di vivere, ma fu umiliato, anche e soprattutto, il senso di appartenenza al genere umano. 

Lo stesso governo fascista italiano, a partire dal 1938, in sintonia con quello tedesco hitleriano, promulgò le leggi razziali a difesa della “razza italiana” che colpirono pesantemente la popolazione ebraica, con un carico asfissiante di divieti e di prevaricazioni su ogni aspetto della loro vita, che furono applicate con grande crudeltà, nell’indifferenza di gran parte della popolazione italiana. Oggi a distanza di 76 anni  da quei fatti, se si vuole evitare di scadere nel ritualismo della celebrazione fine a se stessa, si deve andare al di là della suggestione emotiva e del cordoglio della “Giornata della Memoria” e cogliere l’ occasione di un approfondimento della conoscenza storica, per stimolare il pensiero critico e la riflessione su quanto accadde, sulle cause, sulle dinamiche politiche e culturali, che fecero da supporto alle  persecuzioni ed allo sterminio di sei milioni di persone. 

Perché quelli avvenimenti, quella ferocia non si realizzarono per effetto di fatti imprevedibili e misteriosi, ma furono la conseguenza di precise scelte di tipo politico, e culturale, che superarono l’evento bellico per la crudeltà del disegno criminale dello stermino e che trovò terreno fertile nella fragilità dell’uomo, nelle sue ansie, nel suo isolamento, nella  ricerca di conformismo e di protezione, sui quali ebbe a  svilupparsi agevolmente il germe dell’intolleranza e della xenofobia. Quando ci chiediamo perché Hitler ha ucciso sei milioni di Ebrei nei campi di concentramento, dei quali un milione e mezzo di bambini, non esitiamo a dire che era un pazzo. Lo facciamo quasi per autodifesa, per prendere le distanze, per rassicurarci, per convincerci che la natura umana è diversa, incapace di esprimere quella carica devastante di malvagità e di provocare tanta sofferenza. Anche se poi la realtà giornaliera ci smentisce continuamente. Certamente la sua personalità si prestava molto ad un simile giudizio, perché non c’era un motivo razionale per ritenere pericolosa la popolazione ebraica della Germania, fatta da persone normali, integrate da secoli, che aveva anche combattuto nell’esercito tedesco nella grande guerra. 

Nondimeno, non fu certamente il solo responsabile. Ci furono circa un milione di persone, non solo naziste, che a vario titolo di consapevolezza e di responsabilità, collaborarono alle operazioni di individuazione, rastrellamento, deportazione ed uccisione degli ebrei.  Non credo che si possa ragionevolmente pensare che fossero tutti pazzi. Tutto fu organizzato per fare in modo da frammentare mansioni e responsabilità che ognuno di loro non si potesse sentire responsabile, di potersi scagionare in quanto piccolo, insignificante strumento di un organismo molto più complesso. Alla fine chi materialmente spingeva i prigionieri nelle camera a gas, in diversi casi, erano gli stessi ebrei, gli stessi detenuti, come hanno testimoniato in seguito. Lo stesso Eichmann disse che non aveva fatto male ad un solo ebreo: si era solo limitato a firmare fogli con i quali disponeva i rastrellamenti e le deportazioni, che altri, e non lui, portarono a compimento. 

Numerose ricerche sulla popolazione tedesca dell’epoca accertarono, che l’antisemitismo era molto più diffuso nelle zone in cui non c’era alcuna conoscenza diretta degli ebrei. Per mero calcolo politico erano stati infatti elevati al rango di capro espiatorio di tutte le difficoltà, insicurezze e paure generate dall’elevato grado di competitività che si era affermata con la modernità e che aveva reso l’individuo più indipendente, più critico, ma al tempo stesso più solo, più fragile, più impaurito. Era l’effetto della struttura della società moderna, che lo costringeva a mettersi in gioco, a competere con gli altri, se non voleva essere emarginato, perché il suo destino, la sua vita dipendevano da quanto era in grado di costruire con le proprie mani. 

Ma questa competizione generava e genera ansia e angoscia, legate alla libertà e alla prospettiva di dover fare affidamento sulle proprie forze. Allora se una voce autorevole, amplificata convenientemente dai mezzi di informazione, ti ripete ossessivamente, come fece Hitler, ma anche come attualmente stanno facendo altri in Italia  che la colpa dei tuoi   problemi sono gli ebrei, il diverso, l’estraneo, il marocchino, l’albanese, l’extracomunitario, che è necessario eliminare  e ti dice di non  preoccuparti perché “  ci penso io” , ti risolvo io i tuoi problemi,  pero devi  darmi carta bianca per l’esercizio del potere, può essere liberatorio e conveniente dargli credito,   perché   può rappresentare la scorciatoia  facile per liberarsi dalla tensione, per  alleggerirsi psicologicamente dal disagio e dall’ansia della competizione. Anche se hai la consapevolezza, che dei tuoi problemi, delle tue frustrazioni, delle tue insicurezze non può essere responsabile il diverso. 

Diventa naturale a quel punto dividere la gente fra noi e loro. Noi, i nostri vicini di casa, il nostro quartiere, la nostra città, la nostra nazione: tutti con la stessa identità di appartenenza, gli stessi stili di vita, le stesse abitudini, gli stessi pensieri.  Gli altri sono i diversi, quelli verso i quali si deve nutrire diffidenza e che fanno istintivamente paura. Sono i nemici, perché possono mettere in crisi e sconvolgere la nostra identità di appartenenza.

E’ sufficiente osservare i nostri giovani, ma anche gli ultras, le stesse scarpe, le stesse magliette, gli stessi jeans, gli stessi occhiali, le stesse abitudini, gli stessi ragionamenti e modi di vivere; sono tutti codici di riconoscimento, di identità, che li fanno sentire sicuri dentro il loro piccolo gruppo, che in qualche modo costituisce la loro corazza, ma che può essere anche una barriera nei confronti del mondo.  E su questi meccanismi che si è sviluppato e si può sviluppare il germe dell’intolleranza, ma anche quelli del disimpegno e della cieca obbedienza alle regole dell’autorità e dell’appartenenza. 

Allora pensare che con la sola celebrazione della giornata della memoria possa da sola servire ad evitare che possano accadere in futuro fatti del genere, non credo che abbia una qualche validità o efficacia. Non funziona. Perché se fosse vero molte cose non accadrebbero nel presente e che invece si ripresentano ogni giorno nella loro valenza di malvagità e di sofferenza.

Da qui si dovrebbe partire per intraprendere un percorso di cambiamento culturale, per imparare a vivere senza sentire la necessità di dover essere uguale agli altri, per imparare a sentirsi più forti, affrontando il mondo con curiosità, accettando il diverso come occasione di confronto e arricchimento, rifiutando di inseguire illusioni e scorciatoie pericolose. Ma vivere così purtroppo non è facile.

L'amministrazione comunale di Brindisi dovrebbe prendere lo spunto dalle tragedie del passato ragionare insieme ai ragazzi, per confrontarsi con loro, per riflettere e far riflettere sulle conseguenze dell'intolleranza, per riflettere sulla guerra, sulle sue conseguenze. Non solo riferendosi esclusivamente al passato, ma anche al presente. Alle migliaia e migliaia di morti, che avvengono in moltissime parti del mondo e a tutti gli episodi terribili connaturati con la guerra che stanno comportando il sacrifico di  tanti ragazzi, di tanti giovani. Nella indifferenza di moltissimi cittadini.

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